venerdì 25 marzo 2011

"Riflessi di Modernità. Nichilismo e globalizzazione": articolo di Carmen Fasolo su Metropòlis n.1 Febbraio 2011

Relazione Professore Alessandro Cocuzza alla presentazione del libro "Riflessi di Modernità. Nichilismo e globalizzazione"

Appunti per una relazione...

Quando a partire dagli anni ‘80 si aprì il dibattito sulla cosiddetta Globalizzazione, oltre ad esaltarne le magnifiche sorti e progressive, se ne parlò nei termini di una fase qualitativamente nuova del capitalismo, con caratteristiche diverse e inedite rispetto al passato. Nell’ampio ambito di queste novità, negli anni ’90, si annovererà il fenomeno del famigerato postfordismo.
In Riflessi di modernità. Nichilismo e Globalizzazione Domenico Mostaccio, prende le distanze da entrambi gli aspetti di questa interpretazione, dimostrando come quello che la Globalizzazione ci ha dispiegato davanti è un immenso deserto sociale e umano, attraversato da un’insanabile spaccatura tra gli spazi dell’opulenza e quelli degli irrimediabilmente esclusi e sostenendo a sua volta che la Globalizzazione non è un fenomeno postmoderno ma vada intesa come il compimento della modernità, in cui continuano a riflettersi, dominandola, le istanze nichilistiche tecno-economiche del razionalismo occidentale.

Ora, sulla Globalizzazione come fenomeno economico qualitativamente nuovo si possono sollevare valide riserve, essendo stato il mondo in passato tanto globalizzato quanto lo è oggi, almeno relativamente ad alcuni parametri come quello del commercio internazionale, degli investimenti esteri e dell’esportazione di capitali. E a questo proposito rimanderei a saggi, purtroppo di non ampia diffusione, come Empirical Evidence for Trends towards Globalization di Paolo Giussani e
anch’io avrei una chiave interpretativa diversa che illustrerò, magari, alla fine del mio intervento. Riguardo, invece, all’aspetto esistenziale culturale sociale, cioè intendendo la Globalizzazione come fenomeno ipermoderno ed espressione del nichilismo pienamente dispiegato, sono perfettamente d’accordo con la tesi originale che Mostaccio illustra nel suo bel libro.

Con quello di Domenico Mostaccio siamo di fronte a un serio lavoro scientifico, profondo e documentato, di quelli insomma con cui non ci si può non confrontare.
Essendo poi una grandiosa radiografia della modernità, è inoltre un’opera attraversata da una forte pensosità e tensione morale, da una immedesimazione e partecipazione preoccupata agli effetti della modernità nella vita di ognuno. Com’è, d’altronde, nello stile del nostro autore, cosa evidente già nelle sue poesie.
Infatti, oltre ad essere un libro su nichilismo e globalizzazione, Riflessi di modernità si potrebbe considerare come un saggio per certi versi anche sulla differenza, non tanto perché Mostaccio si sia qui confrontato col dibattito specifico – in fondo di carne al fuoco ne aveva già messa parecchia per allargare ulteriormente la sua analisi ! – quanto perché, in base a ciò che si è appena detto, l’approccio pensoso e partecipato del nostro lo porta sempre a considerare le sorti nostre e del nostro tempo.

Prima di procedere, voglio aggiungere che oltre all’intelligenza e originalità dell’approccio, oltre allo spessore della documentazione, di cui ho già detto, il libro di Domenico ha una caratteristica che, a sottacerla, gli si farebbe un grave torto: di essere, cioè, un libro chiarissimo, nonostante lo spessore dell’argomento. Il nostro, infatti, rivela la notevole capacità di orientarsi in una bibliografia sterminata e di illustrare del pensiero altrui aspetti estremamente problematici con una chiarezza sorprendente, anche ad esempio quando si confronta con quel filosofo notevolmente oscuro, e anche terminologicamente impegnativo, che è Heidegger...
Inoltre, la prosa di Mostaccio nella sua eleganza si caratterizza anche per un’atmosfera particolare, per un certo tono aurorale, apocalittico, di chi conosce la vertigine del limite, dell’abisso, della solitudine e da questa prospettiva sa intravedere scenari carichi di destino – è quell’aura che tutti i lettori di Nietzsche, Heidegger, e Jünger in particolare, conoscono assai bene...
E non vi nascondo che, essendo anch’io un lettore di Nietzsche, conosco e so quant’è contagiosa... tanto che in questa occasione ho dovuto controllarmi per non subirne il fascino nella mia relazione...

Quella sostenuta da Mostaccio relativamente alla globalizzazione è una tesi originale. Il messaggio che ci giunge da questa opera profonda e densa a tal punto da togliere il respiro nel suo intenso procedere ragionante, è che la globalizzazione sia un fenomeno non postmoderno, come si predica da più parti, ma ipermoderno, frutto della occidentalizzazione del mondo per citare la tesi di Latouche, ma soprattutto fase estrema e compiuto trionfo della modernità, epoca nichilisticamente connotata e in-formata dalla vittoria definitiva del pensiero calcolante, insomma di quel razionalismo tecno-scientifico ed economico affermatosi agli albori della modernità stessa. E che perciò non possiamo capire l’oggi senza conoscere la modernità, di cui l’oggi è fase compiuta, quella modernità nella quale ci sono guide necessarie e infallibili giganti del calibro di Nietzsche e Heidegger, Jünger e Schmitt (figure di riferimento di quella “Rivoluzione conservatrice”, movimento sviluppatosi in Germana tra le due Guerre e illustrato da Armin Mohler, nel 1950, nel suo saggio Die konservative Revolution in Deutschland 1918-1932).
Per comprendere tanto la crisi valoriale in cui siamo immersi quanto il senso di spaesatezza ed omologazione, anche nella forma della globalizzazione, che contraddistinguono il nostro tempo, un approccio e uno scavo geneaologico, nel senso nietzschiano del termine, sono quanto ci serve – sembra dirci Mostaccio – a una corretta comprensione dei fenomeni in questione, per altro correlati tra loro.
Oltre all’approccio genealogico, per risalire alle radici della modernità, Mostaccio, accostandosi a quel fenomeno per certi aspetti sfuggente e complesso della modernità compiuta che è appunto la globalizzazione, segue, come lui stesso afferma anche una logica a spirale che gli “dia la possibilità di ritornare-aggirandolo sul nucleo essenziale del fenomeno in questione, con l’aggiunta di volta in volta di qualche tassello ad arricchirne il contenuto”.
Con l’aiuto dei giganti del pensiero a cui fa costante riferimento, Mostaccio, abbiamo detto, fa uno scavo genealogico per risalire alle origini di quel fattore centrale della modernità che è il nichilismo. Che cos’è il nichilismo e quando e dove ha avuto origine? Tipico del nichilismo è, tanto per fare un esempio, il senso di sradicatezza che le nazioni moderne si danno in un diritto internazionale non terraneo. Le norme di diritto internazionale come le intendiamo oggi noi, a differenza, ad esempio, del nomos della Terra eurocentrico, che si dà come unità di ordinamento e localizzazione, ci dice Carl Schmitt non si riferiscono a un ordinamento spaziale concreto, ma hanno perso appunto ogni radicamento alla terra assumendo la connotazione legal-normativistica di legge. Questo appunto per fare un esempio.
Questo “viaggio al termine della notte”, questa risalita alle origini del nichilismo attraverso la guida degli autori citati, porta Mostaccio a ricostruire anche la posizione dei suddetti pensatori rispetto alla possibilità e alle soluzioni da adottare per essere “attuali” ed eventualmente per opporsi al vertiginoso processo distruttivo del nichilismo, attraverso soluzioni che recuperino, nell’epoca in cui è impossibile ogni stare, forme nuove di radicamento.
Mostaccio si chiede, infatti, se ci si può opporre al nichilismo, se si può andare ad esso in controtendenza, nonostante il suo trionfo planetario nell’età della modernità compiuta... Dando risposte diverse, Jünger, Schmitt, Latouche, Cacciari e, per certi versi lo stesso Mostaccio, che a questo proposito si mostra come sempre molto cauto, pensano di sì. Insomma non ritengono che sia un destino a cui siamo deterministicamente e supinamente soggetti. Jünger, ad esempio, senza espressamente parlare di un’uscita dal nichilismo, almeno in una certa fase del suo pensiero, quella cosiddetta eroica, ritiene che l’operaio, oltre ad essere l’unico a saper rispondere all’appello del tempo che nella nostra epoca ha preso forma di Mobilitazione totale (e si veda quanto sostengono a proposito dell’oltreuomo Nietzsche ed Heidegger...), ritiene che l’operaio, appunto, a un certo stadio della tecnica possa prenderne il controllo dominandola. La tecnica non dominata mostra infatti il suo volto intrinsecamente nichilistico; ma, quando essa raggiunge la perfezione, cioè non sarà soggetta a un continuo sviluppo e aggiornamento, cosa che comporta un continuo adeguamento da parte dell’operaio si adegui, quando appunto raggiunge il livello di perfezione e si stabilizza ecco che potrà essere dominata dall’operaio. Cosa che sarà favorita anche dell’esistenza di uno Stato mondiale: non che le due cose vadano di pari passo... E’ certo però che uno Stato mondiale vedrà un ridimensionarsi della competizione e potrà garantire maggiore benessere a tutti, piegando ad esempio il nucleare ad usi pacifici.

Riguardo alla questione se sia possibile andare in controtendenza rispetto alle istanze di un nichilismo dispiegato e compiuto su scala planetaria, anche Schmitt ritiene che, nonostante tutto, l’uomo sia artefice della propria storia e quindi possa sperimentare nuove forme di radicamento alla terra. Dopo il tramonto del nomos eurocentrico della terra, lo stesso Schmitt pensa ad altre forme di nomos che possano rispondere alla sua idea di nomos, ma anche al suo concetto di “politico”, proponendo la teoria del grandi spazi (confini meno netti, centro di irradiazione economica, culturale... luogo della convivenza di molteplici gruppi etnici...e capace quindi di risolvere la questione del diritto dei popoli ), o sempre per salvaguardare il principio del pluriverso quella della distinzione tra paesi industrializzati e paesi industrialmente arretrati, e, sulla spinta del pensiero di Gottmann, l’idea di iconografia regionale. Proposte queste ultime tese a sottrarre l’umanità da quella logica omologante del pensiero unico che, come dice Mostaccio, “mira a fare del mondo intero il riflesso ingigantito di un unico centro di potere e della sua visione del mondo”.
Latouche da parte sua sostiene che “lo iato tra sistema tecnico e società può essere la fonte di disfunzioni tragiche, ma può essere anche l’occasione di una ripresa di controllo della tecnica da parte degli uomini per costruire un’autentica postmodernità, cioè una società che reincorporerebbe l’economia e la tecnica nel sociale, che incatenerebbe di nuovo Prometeo, che rimetterebbe l’economia e la tecnica al posto subalterno che deve essere il loro piuttosto che affidare la soluzione di tutti i problemi umani a un dominio illimitato della natura e a una concorrenza generalizzata e cieca”

Per Mostaccio il cor-rispondere alla tecnica, in quanto appello del tempo, non può dunque non avere come suo telos il dominio della tecnica stessa, la de-ambientalizzazione della tecnica con la conseguente destrutturalizzazione del tecnototalitarismo (C. Resta, ma la megamacchina, la macchina impersonale che trasforma il mondo in una tecnopoli di cui parla Latouche; la tecnica totalizzante, non più oggetto di una nostra scelta ma come il nostro ambiente. Dalla signoria dell’uomo si passa a quella dell’apparato tecno-scientifico, laddove il nichilismo si manifesta in tutta la sua enorme potenza dislocante...).
Preziosi suggerimenti su questa strada possono giungere, come dice Mostaccio, dai pensatori da lui trattati.

L’ospite inquietante, una sorta di convitato di pietra, “il più sinistro fra tutti gli ospiti” del nostro tempo è il nichilismo e Nietzsche il suo profeta...
Nichilismo significa che tutto si destituisce di senso al crollo dei quei valori che hanno fondato e guidato l’Occidente, quelli di ascendenza platonica e giudaico-cristana. Evento paradigmatico è la cosiddetta “morte di Dio”. Nietzsche è figlio dell’Età del Decadentismo. Il 1873, con la prima grande crisi del capitalismo ha segnato uno spartiacque nell’epoca connotata dalla fiducia nella scienza e nel progresso del Positivismo: non per nulla prima del 1873 si colloca la grande Età del Realismo, con la convinzione presso che generalizzata che la realtà fosse conoscibile e per certi versi anche modificabile, e, dopo quella data, l’Età del Decadentismo in cui, come Baudelaire aveva anticipato qualche decennio prima, il mondo viene inteso come una foresta di simboli in parte accessibile solo al poeta veggente di rimbaudiana memoria. Nietzsche, però, come tutti i grandi, ha uno sguardo che supera il suo tempo, che sa cogliere il nichilismo alle radici addirittura dell’Occidente, nel pensiero di Socrate e nella visione del mondo impostasi col Giudaismo e il Cristianesimo. Molto pertinente è la distinzione individuata da Mostaccio tra nichilista passivo, attivo ed oltreuomo, vale a dire nichilista estatico. Distinzione poi utilissima anche per capire aspetti centrali del pensiero di Heidegger e Jünger. Nell’ambito della sua analisi di Nietzsche, Mostaccio mette bene in evidenza i rapporti tra nichilismo e décadence, e sottolinea giustamente, anche sulla scorta di Pasqualotto, che Nietzsche non può ricondursi alle correnti irrazionalistiche della sua epoca, proponendosi il filosofo della Sassonia come il difensore di una ragione nuova “Una ragione libera da ogni dovere, sacro o profano che sia; sorretta e guidata soltanto dal piacere della conoscenza sperimentale”.
Non per nulla alcuni libri precedenti allo Zarathustra, in particolare La gaia scienza e Umano troppo umano sono state definite dalla critica, e da Vattimo in particolare, opere della fase illuministica di Nietzsche.
Procedendo sinteticamente, l’oltreuomo nietzscheano, a differenza del decadente, che, per paura della vita, separa il mondo in un mondo “vero” e in un “mondo” apparente, sintomo questo di vita declinante, l’oltreuomo, dicevamo, è colui che ha una visione tragica della vita e rimane fedele alla Terra e, non avendo bisogno di un mondo vero, per amor fati dice sì alla vita, accettando il divenire senza alcuna finalità e la propria finitezza.
Nietzsche sa che è stato l’uomo, per conservarsi, a dare un senso alle cose e che i valori hanno pertanto un’origine solamente umana a cui il nostro filosofo risale attraverso, appunto, uno “scavo genealogico” della morale. L’oltreuomo, invece, è colui che è capace di una vita autentica e affermativa in quanto sa farsi carico del nulla, dell’ignoto e del dolore che ciò comporta, perché grazie alla sua grande salute rifiuta di appoggiarsi al bastone della morale e, come dice Mostaccio, “ponendo in essere un nuovo sistema di valori è consapevole però che non esiste nessuna verità in sé, dunque assoluta, ma che ogni verità è semplicemente un “tener per vero” strutturato su umani, troppo umani giudizi di valore”.

Parlando del nichilista attivo, quello che contribuisce al crollo dei valori in vigore già in crisi, Nietzsche può fare una disamina della propria epoca vedendo quali sono i segni diffusi della décadence: in fondo il nichilismo è una fase necessaria che fa intravedere l’epoca di un uomo nuovo. La democrazia, la civiltà delle macchine, il nazionalismo sono aspetti della fase nichilistica su cui Nietzsche scrive pagine acutissime. A ogni piè sospinto Nietzsche prende le distanze dal nazionalismo, moda nazionale non solo tra i tedeschi, dichiarando di non identificarsi in nessun popolo che, circoscrivendo i propri confini, si crea così un nemico e di sentirsi invece europeo e cosmopolita. Comprende come dell’Occidente facciano parte a pieno titolo gli Stati Uniti e come, sulla base delle spinte della concorrenza internazionale e della competizione mondiale, il destino dell’Europa è di essere politicamente unita.

Da parte sua Heidegger approfondisce alcuni aspetti del pensiero nietzscheano. Trascurerei la riflessione sull’essere come oblio di sé, come “destino”, come “evento” che si dà, ritraendosi, per sottolineare che anche per il filosofo di Essere e tempo il nichilismo, come ci dice Mostaccio, è l’aspetto essenziale della modernità, con la mancanza di senso e la spaesatezza, cioè la totale perdita di radicamento a qualsiasi luogo, che la caratterizza.

L’essere senza casa da parte dell’ente in quanto tale porta alla luce la spaesatezza dell’uomo storico entro l’ente nel suo insieme.

Lasciando stare che il nichilismo, in quanto rientrante nel destino dell’essere non ha per Heidegger una connotazione negativa, bisogna sottolineare che egli è tra i primi a cogliere aspetti essenziali della modernità.
Per Heidegger, come ci dice il nostro autore, l’aspetto determinante del nichilismo è quel pensiero calcolante, che sta alla base del razionalismo moderno, la cui origine è rintracciabile nella filosofia di Cartesio e del suo soggetto che si crea il mondo come oggetto del proprio rappresentare e quindi, riportandolo a sé, lo fagocita.
Qualcosa di simile troveremo in Carl Schmitt quando, tra i pilastri della modernità e del suo nichilismo, individuerà quella rivoluzione nel profondo, avvenuta al tramonto del Medioevo, con la scoperta dei concetti di vuoto e d’infinito che tanto peso avrebbero avuto nella rivoluzione scientifica moderna avvenuta tra XVI e XVIII secolo.
Tanto nel caso di Heidegger quanto in quello di Schmitt sarebbero stati dei cambi di paradigmi, nuove visioni del mondo, a determinare gli sviluppi della modernità. D’accordo che Schmitt, tra gli aspetti determinanti della modernità ne individua altri... Però, mi chiedo e chiedo a Domenico, quanto queste nuove visioni del mondo hanno determinato, ad esempio, lo sviluppo del capitalismo e quanto esse sono state determinate “dallo” sviluppo del capitalismo... In sostanza, sono la rivoluzione nel profondo e il pensiero di Cartesio che hanno dato un’impronta all’Occidente o è stata la rivoluzione socio-economica, configuratasi agli albori della modernità, che ha determinato il pensiero e improntato il corso della storia successiva?

E dico questo, anche perché tanto Heidegger quanto Schmitt sono tedeschi e non pochi tedeschi, come ci insegna la storia del pensiero, tendono a anteporre la storia dello spirito alla realtà, cioè ai condizionamenti materiali...
In fondo, poi, noi conosciamo solo una scienza e una tecnica sviluppatesi nel contesto del capitalismo...

Heidegger colloca il pensiero di Nietzsche nell’ambito della metafisica occidentale, di cui costituirebbe il punto culminante. La metafisica occidentale si caratterizza per il suo considerare l’essere a partire dall’ente e non in sé e per sé; Nietzsche si collocherebbe nel momento estremo del pensiero occidentale in cui l’essere viene eliminato per lasciare posto all’ente e al divenire. Ho già detto prima come Heidegger intenda l’essere “come “destino”, come “evento” che si dà, ritraendosi”...

Agli occhi di Heidegger, nell’epoca del nichilismo pienamente dispiegato nell’affermarsi del razionalismo tecno-economico, chi è
veramente attuale, chi può essenzialmente cogliere l’appello del tempo – secondo una suggestione che gli proviene dalla lettura dell’Operaio di Jünger – l’unico che sia capace di in-formare il mondo di sé mediante la tecnica, è solo l’oltreuomo nietzscheano.
L’oltreuomo, “come soggetto della modernità e del nichilismo compiuti, non può prescindere da quel pensiero calcolante che mira ad assicurarsi la totalità di tutto ciò che è, anzi deve radicalizzarlo”. Dominio e calcolo, significano “padronanza di tutto l’essente conseguita mediante la tecnica”. La natura, come aveva già intuito Nietzsche è tra le vittime della meccanizzazione del mondo. Heidegger sottolinea che la tecnica riduce la natura a “fondo”, tenendola, cioè, in considerazione solo in funzione dell’“impiego”. In questo processo di oggettivazione nemmeno l’uomo viene risparmiato, divenendo una semplice risorsa da sfruttare... Nell’epoca della tecnica scatenata, l’oltreuomo si farà carico del dominio della Terra intera.

Nell’orizzonte degli autori che hanno letto la modernità attraverso quella lente d’ingrandimento che è il nichilismo si collocano due grandi intellettuali fino a poco tempo fa considerati esclusivo patrimonio della cultura di destra, come Ernst Jünger e Carl Schmitt, e che in Italia sono approdati al più ampio dibattito anche grazie al lavoro di Massimo Cacciari...
Come ci dice Mostaccio, la tematica del nichilismo è centrale, addirittura coessenziale all’intera opera di Ernst Jünger. Jünger sviluppa la riflessione di Nietzsche sulla meccanizzazione e spersonalizzazione determinata dalla civiltà delle macchine, giungendo a posizioni originali.
Nell’esperienza di questo grande scrittore e pensatore, quella vissuta in prima linea durante la Grande Guerra occupa un posto centrale: la Prima guerra mondiale mostra a Jünger come il nichilismo si fosse storicizzato nell’immane violenza del conflitto ai danni dell’uomo e della natura, nell’impiego inedito di una tecnica messa al servizio della morte. Essa ai suoi occhi si mostra come uno scontro tra due epoche.
Da questi campi di battaglia un nuovo soggetto si affaccia alla soglia della storia umana: è l’operaio, non inteso, ci dice giustamente Mostaccio, in senso socio-economico né sociologico, ma come “forma”, “tipo” della modernità.
Jünger coglie con grande acutezza la differenza tra l’età borghese che fu il XIX secolo, che ebbe i suoi soggetti principali nell’individuo e nella massa, e il mondo uscito dalla Prima guerra mondiale che ha nel singolo e nella collettività i due termini storici di riferimento. Secondo lui, però, solo l’operaio, l’uniforme del nulla, può cor-rispondere all’appello del tempo che si manifesta nella “mobilitazione totale”, conformando il mondo a un lavoro divenuto totale. La condizione dell’uomo moderno è di essere in movimento e, come dice la Resta, “il movimento è la forza del niente che travolge ogni cosa”: in tale scenario l’operaio è il soggetto attuale della modernità.
Nel parlare dell’operaio e del lavoro come stile di vita unico dell’epoca capace di informare di sé, nella sua natura totalizzante, ogni aspetto della realtà, da quello umano a quello sociale e financo la natura, Jünger aveva certamente sotto gli occhi la Germania nazista, la Russia stalinista e il fordismo americano. Il modo che ha l’operaio di rispondere all’appello della mobilitazione totale, è la tecnica.
Jünger comprende che il trionfo del razionalismo nell’aspetto del dominio del pensiero calcolante e della ferrea logica tecnico-organizzativa avrebbe ridotto ogni forma di diversità alla logica dell’uniforme, dell’oggettivo e del calcolabile, in quanto tutto deve essere organizzato in funzione di un iperfunzionalismo. In una società del genere naturalmente l’individuo non conta più ma contano il tipico, la funzione: ognuno conta in quanto ingranaggio del sistema, e, in quanto tale, è facilmente sostituibile; per cui l’umanità, come dice Luisa Bonesio, “diventa una serialità indifferenziata, intercambiabile, sempre più assimilabile a quella materia del mondo che viene manipolata e depredata senza limitazioni”. Quello che si era visto nelle trincee della grande Guerra, specifica giustamente Mostaccio, trova conferma nel mondo divenuto officina. Infatti, l’ordine si presta meglio del disordine per il nichilismo, “anzi è un terreno fertile che esso rimodella per i propri fini”. “L’ordine, la quantificabilità e l’oggettivazione della totalità dell’ente sono indispensabili per il pensiero calcolante e tecnico veicolato dall’operaio che, in quanto potenziale signore della tecnica, mira al dominio dell’intero orbe terracqueo”. L’aspirazione al dominio al dominio impone il sacrificio di ogni diversità e persino del bello.

Jünger mostra nei riguardi della tecnica un atteggiamento ambivalente o, almeno, diciamo che la sua fiducia nelle possibilità di dominare la tecnica, almeno in una certa fase del suo sviluppo, si attutisce nel confronto tanto con i tempi, in particolare dopo l’esperienza della Seconda guerra mondiale, quanto dopo essersi confrontato col fratello, Friedrich Georg, autore de La perfezione della tecnica. A questo punto della sua riflessione Jünger attenua il suo ottimismo sottolineando invece il portato demonico della tecnica che sfugge di mano a ogni controllo e determina negativamente di sé il mondo, a partire dalla natura per finire con gli uomini.
Sul piano politico, Jünger è convinto che l’equivalente politico del trionfo della mobilitazione totale a livello planetario sia lo Stato mondiale, uno sbocco necessario a cui la forma-stato non può sottrarsi. Sulla crisi della forma-stato egli è d’accordo con Schmitt. Jünger è convinto, però, che lo Stato mondiale è un risultato irreversibile della storia: come l’interprete della tecnica è un cosmopolita, divenendo, con la tecnica, ogni questione ormai planetaria, allo stesso modo il Pianeta è destinato ad essere ricondotto sotto un unico potere politico.
Mostaccio ci dice che, a questo esito necessario dei tempi, Jünger guarda con fiducia e il solito ottimismo, aspettandosi che nel contesto dello Stato mondiale sia possibile garantire le differenze e la libertà degli individui. E in tal senso va interpretata la sua distinzione tra organizzazione e organismo, indicando la prima l’organizzazione tecnica che l’operaio ha impressa al mondo, il secondo gli spazi di libertà che devono rimanere fuori dal dominio dell’operaio e dell’apparato tecnico.
Se Mostaccio ritrova nell’approccio di Jünger fertili spunti per comprendere quella modernità, di cui facciamo parte, guarda con perplessità alla fiducia e per certi versi acriticità con cui Jünger considera lo Stato mondiale che, al nostro, appare il regno dell’omologazione, del pensiero unico, della reductio ad unum che contraddice la possibilità di essere di ogni alterità, per le quali auspica un ritorno alla terra e un recupero delle proprie radici.

Prendendo in considerazione quel pensatore assai stimolante che è Carl Schmitt, si vede subito come Mostaccio si trovi in linea con lui almeno riguardo alla sua visione pessimistica dell’uomo, sottoscrivendo le posizioni di Schmitt sull’ineliminabilità della guerra dall’orizzonte umano e politico, sull’egoismo umano...
Schmitt condivide con Jünger certe acute posizioni sull’attualità: entrambi ritengono fittizia la divisione emersa nel corso della Guerra fredda tra un Occidente liberale e democratico capitalista da una parte e un Oriente comunista e illiberale dall’altra. Entrambi gli schieramenti, oltre ad essere soggetti a logiche economiche e tecnologiche simili, sembrano ai due pensatori riflettere le stesse logiche universalistiche e, in quanto tali, totalizzanti. (Jünger ammette delle differenze sul piano economico.....: oggi vanificate da quegli interpreti che leggono l’economia sovietica come capitalismo di stato...)
Diverso è il loro punto di vista sugli esiti politici della modernità, essendo, come s’è visto, Jünger un sostenitore della necessità e un difensore della validità dello Stato mondiale, ritenendo questa soluzione, invece Schmitt, un pericolo incombente, in quanto in contraddizione tanto col suo concetto di nomos e che con quello di politico.
Mostaccio precisa subito che per nomos della terra Schmitt intende un ordinamento spaziale concreto che si dà sempre e solo come unità di ordinamento e localizzazione, mentre a fondamento del politico il pensatore tedesco metta la relazione amico-nemico. Il pensiero di Schmitt è, anche nella terminologia di cui si serve, fortemente “identitario”. Come per Jünger, il nichilismo è centrale anche nel pensiero di Schmitt. In quest’ultimo prende in particolare la connotazione di delocalizzazione, di sradicamento...
Lo scavo dell’opera di Schmitt serve, appunto, a Mostaccio a fare emergere come questo grande pensatore, studiando la storia occidentale alla luce di categorie giuridiche e politiche, faccia emergere un crescente sradicamento che coincide con la modernità.
Schmitt comprende il Medioevo sotto la definizione di respublica christiana. Questa non indica un’entità politicamente unitaria ma una serie di soggetti, popoli e stati, accomunati dal fatto di essere identitariamente uniti dalla fede cristiana cattolica. Al di là di questi confini, per altro mobili, esiste un nemico comune, si tratta di un nemico teologico a cui non va riconosciuta un’identità giuridica e pertanto esposto ai progetti di conquista della feudalità cristiana legittimata in queste imprese dal papa. Mentre il diritto romano, ci dice Schmitt, aveva acquisito la distinzione tra hostis e criminale, riconoscendo al primo una identità che non riconosceva al secondo, visto che con l’hostis si combatteva, ma anche si intrattenevano rapporti economici, per la res publica christiana il nemico teologico va solo annientato, al limite convertito, per cui il conflitto diventa in questo caso bellum iustum ex justa causa e le lotte tra i nemici interni, legati dalla stessa religione, si traducono invece in faide che non alterano gli equilibri e la struttura dell’ordinamento condiviso.
La modernità si inaugura con un nuovo diritto internazionale fondato su una originale entità politica nata per porre fine alle guerre di religione, cioè la forma-stato a cui corrisponde sul piano giuridico lo jus publicum Europaeum. Si tratta di un ordinamento fortemente localizzato, dai confini ben circoscritti che prevede un preciso riconoscimento dell’identità giuridica politica degli altri stati, contro cui, quando la diplomazia non riesce nel suo intento, si può ricorrere in via del tutto eccezionale alla guerra (justus hostis e guerre en forme). Nella forma-stato la religione perde l’aspetto totalizzante che aveva nella res publica christiana per “laicizzarsi” e divenire instrumentum regnum che lega i propri sudditi al sovrano.
In questo contesto storico sostanzialmente stabile si registrano, però, ci dice Schmitt, alcuni “terremoti” di natura diversa che lo destabilizzano: la scoperta dell’America, anche se inizialmente non è avvertita come tale, genera nel contesto europeo e mondiale una “rivoluzione spaziale” che contribuirà fortemente a destabilizzare la solidità dello jus publicum Europaeum nella forma politica degli stati nazionali. Ma tanto l’impresa di Colombo quanto la rivoluzione scientifica (XVI-XVIII sec.) non sarebbero forse state possibili, dice Schmitt, senza una “rivoluzione nel profondo” realizzatasi al tramonto dell’Età di mezzo con l’introduzione dei nuovi concetti di vuoto, infinito e nulla che getta le basi, direbbe Kuhn, per un nuovo paradigma.
Questi sono i primi profondi scossoni subiti dalla forma-stato. L’Europa nei secoli successivi alla scoperta dell’America si dota di strumenti di diritto internazionale come la rayas e le amity lines
per definire le aree di influenza e sfruttamento economico delle potenze egemoni: prima di Spagna e Portogallo, successivamente dell’Inghilterra, l’unica nazione europea a saper rispondere all’appello dei tempi. Il concetto di appello dei tempi, implicito in Nietzsche, lega il pensiero di Jünger e di Schmitt. Tornando alle “linee” di cui parlavamo, esse, nonostante lo scossone impresso alla storia dalla scoperta del Nuovo continente, contribuiscono inizialmente a rafforzare l’identità europea e la tenuta della forma-stato, spostando il nemico, privo di qualsiasi riconoscimento umano e giuridico, al di là delle linee di influenza, dove finisce appunto la civiltà e lo stato di diritto e inizia una sorta di stato di natura, dove vige l’hobbesiano bellum omnium contra omnes, dove insomma tutto è permesso. Infatti tutto è permesso non solo ai danni delle popolazioni indigene trovate sul suolo americano ma anche, per un tacito e condiviso consenso, contro il proprio nemico commerciale e i suoi alleati.
Gli ulteriori scossoni verranno appunto con la scelta per il mare dell’Inghilterra, l’unica a cogliere, come s’è detto, l’appello del tempo. In fondo, Spagna e Portogallo, nello sfruttamento massiccio del Nuovo Mondo erano rimaste ancorate alle loro tradizioni politiche e culturali. E’ l’Inghilterra, rispondendo, da sola, al richiamo proveniente dell’oceano, a sovvertire la propria natura, a sradicarsi e a proiettarsi nel grande progetto di dominio commerciale del mondo.

Questa violenta Entortung – ci dice la Resta – che l’ha sradicata dalla terra facendola tuffare nelle onde del mare, quella decisione per un’esistenza marittima, si mostra ora anche in tutta la sua potenza de-localizzante e de-territorializzante come l’inarrestabile forza che travolge ogni stare e ogni stato.

E’ questa decisione dell’Inghilterra per il mare a determinare la Rivoluzione inglese e la Rivoluzione industriale, entrambi eventi cardine della modernità. Sarà la potenza commerciale inglese a garantirle quella accumulazione originaria che tanto peso ha per la Rivoluzione industriale.

Mostaccio segue con particolare cura la ricostruzione schimittiana delle sorti della forma-stato e dello jus publicum Europaeum, attento anche lui a cogliere le spinte nichilistiche che si radicano al loro interno prima ancora del definitivo crollo, che si può far risalire al 1823, data in cui viene tracciata la linea dell’emisfero occidentale e proclamata la Dottrina di Monroe eventi che ratificano l’affermazione della potenza americana avvenuta dopo la rivoluzione americana del 1763-83. Lo sradicamento, a cui avevano contribuito gli eventi precedentemente descritti e in particolare la decisione dell’Inghilterra per il mare, riceve nuova linfa dalla politica di dominio planetario che gli Stati Uniti metteranno in atto dopo la fase di isolamento economico e morale dalla vecchia corrotta Europa auspicato dal presidente Jefferson e attuato da Monroe.
Negli anni successivi gli Usa faranno di tutto per appoggiare le lotte di indipendenza da Spagnoli e Portoghesi nel Sud America, riconoscendo ai popoli latini un diritto di autodeterminazione mai prima riconosciuto dagli europei (intromissione e riconoscimento che non accetteranno da parte degli europei durante la Guerra di secessione...). Gli USA, in seguito alla Dottrina di Monroe, si presenteranno all’Europa e al mondo come il difensore della libertà e della moralità contro l’assolutismo degli stati europei. Passerà poco e gli Stati Uniti inaugureranno una politica di interventi politici e militari in tutto il territorio americano (panamericanismo) e altrove. La Conferenza per il Congo del 1884-85 li vedrà protagonisti e pronti a riconoscere a uno stato africano come il Congo gli stessi diritti degli stati nazionali europei. Questa è comunque un’occasione in cui lo jus publicum Europaeum si illuderà ancora di avere un peso quando invece dimostrerà di averlo perso. L’affermazione su scala planetaria di altre nazioni come la Russia e il Giappone e infine la Prima guerra mondiale segnano il definitivo crollo del diritto internazionale europeo. La storia del ‘900 è quella di un’Europa sempre più sradicata sotto la spinta delle leggi ormai dominanti del mercato e della tecnica che hanno fatto passare in subordine l’azione politica degli stati.
Schmitt, ci dice Mostaccio, perfettamente consapevole, come d’altronde Jünger, della crisi definitiva della forma-stato, cerca di rintracciare la possibilità di nuovi nomos della terra. Ostile a una possibile affermazione di uno stato mondiale, in quanto, come s’è detto, in contraddizione con la sua idea di nomos e di politico, li rintraccia nella Teoria dei grandi spazi, prima, poi in quella della distinzione tra paesi industrializzati e industrialmente arretrati, e infine, sulla scorta di Jean Gottmann, nel concetto di “iconografia regionale”. Schmitt, che non accettò mai la teoria dello “spazio vitale” di Karl Haushofer, mantenendo però un colpevole e complice silenzio nei riguardi delle pretese espansionistiche hitleriane, come ci dice Mostaccio, coltivò sempre la convinzione che artefice dei mutamenti storici resta sempre l’uomo, nonostante gli appelli del tempo. Le soluzioni da Schmitt proposte nel campo del diritto internazionale, sulle quali non è il caso di insistere, tendono comunque tutte a salvaguardare il diritto delle minoranze alla propria identità e a concepire un nuovo nomos finalizzato a creare nuove forme di radicamento, al di là del quale ci si espone a diventare più facilmente preda delle istanze nichilistiche della modernità.
Il pensiero di Carl Schmitt offre, secondo Mostaccio, ineludibili spunti di riflessione sulla condizione dell’uomo contemporaneo e sulle possibili soluzioni da praticare per metterci al riparo dal potere sradicante e omologante del nichilismo.


A proposito della globalizzazione, Mostaccio prende in considerazione il pensiero di una serie di autori che, come lui stesso dice, gli forniscono elementi per un itinerario interpretativo all’interno del quale può leggere la globalizzazione alla luce della sua natura altamente nichilistica, e insomma come un’espressione estrema della modernità. Questa, come abbiamo visto, vede l’imporsi a livello mondiale di quell’ordine di idee e di quel progetto che fa capo al razionalismo occidentale nella sua forma capitalistica. La rivoluzione spaziale, avvenuta con la scoperta dell’America, la “rivoluzione nel profondo” che l’ha preceduta e che ha determinato quella scientifica dei secoli XVI-XVIII hanno impresso all’Occidente e al mondo una svolta, modificando le strutture economiche, politiche e sociali dell’Europa: il continente europeo si rivela come uno spazio politico da ripensare nell’ottica di una riconosciuta globalità e in relazione ai nuovi spazi d’oltreoceano da sfruttare e amministrare.

Tutti gli interpreti della globalizzazione condividono il punto di vista secondo cui la globalizzazione ha determinato la totale perdita dei legami territoriali, cioè di ogni forma di radicamento in quest’epoca dell’assoluta mobilità che mette in questione la possibilità stessa di ogni stare...
Già Carl Schmitt, nel 1932, aveva parlato di un tramonto definitivo della forma-Stato sotto la pressione delle leggi economiche che travalicano i limiti e gli interessi dei singoli stati. Pensatori più recenti, citati da Mostaccio, si pongono sulla stessa linea interpretativa: Marramao dice che la globalizzazione se non la fine della forma-stato innesca almeno un declino del Leviatano e un’erosione costante delle sue prerogative sovrane. Bartoli parla di un mondo ormai organizzato come una rete gerarchizzata, soggiacente a una logica altamente dislocante governata da principi trasnazionali che sopravanzano la rigidità dei confini statali. Lo stesso fa Ulrich Beck, che insiste sull’azione di questi attori transnazionali che, soggiacenti alla logica del liberismo, condizionano la politica degli stati nazionali. Idem, Carlo Galli, per cui l’economia travalica i confini e prende il posto della politica, dando vita alla geo-economia, secondo cui lo stato è solo una variabile del processo economico. Zygmunt Bauman, da parte sua, sostiene che l’ultimo quarto del XX secolo passerà alla storia come la grande guerra di indipendenza dallo spazio, in cui i centri decisionali liberi da legami territoriali si distaccano dai vincoli imposti dai processi di localizzazione.
Habermas sottolinea l’aumento della povertà e delle disuguaglianze e nella globalizzazione vede almeno un’opportunità per la difesa dei diritti dell’uomo non più entro l’ambito degli stati nazione ma affidata ad organismi sopranazionali. Come Bartoli, Bauman pensa che bisogna ripensare il concetto di sovranità; in particolare quest’ultimo ritiene che si debba passare da un diritto internazionale a un diritto cosmopolitico fondato sull’autonomia dei cittadini sottratti alla sovranità dei singoli stati.
Beck sostiene che globalizzazione e regionalizzazione non siano inconciliabili ma fenomeni correlati e complementari che si cor-rispondono. A tal proposito, Mostaccio critica Marramao secondo cui le insorgenze identitarie nascerebbero come reazione alla logica omologante del totalitarismo della tecnica e del mercato: sappiamo infatti, ci dice, quali conflitti di interessi e di classe ci sono dietro certi movimenti e anche dietro le resistenze xenofobe e razziste...
Se la globalizzazione pone il problema delle differenze, delle alterità e della difesa delle varie identità, secondo Mostaccio dovremmo recuperare il senso del limite che non deve essere inteso mai come chiusura e semplice salvaguardia della propria identità, ma costante apertura a un confronto.

Tra le interpretazioni generali della globalizzazione Mostaccio mette a confronto quella di Marramao che la intende come un necessario passaggio a Occidente e quella di Latouche che la interpreta come occidentalizzazione del mondo.
Marramao sostiene che bisogna pensare a una compenetrazione dinamica e dialettica tra globale e locale (Glocal => Bauman); ma, parlando dell’affermazione del razionalismo occidentale nel modello capitalistico, lo intende come passaggio ad Occidente di tutte le culture, un transito verso la modernità senza alcuna imposizione, ma attraverso un reciproco influenzarsi, nella modalità di un interscambio:

Quanto più la modernità si espande, diffondendo su scala globale l’economia e l’estetica della merce, tanto più la società occidentale viene permeata dalle alterità culturali.

Mostaccio critica queste conclusioni, precisando che il modello tecnico-economico del razionalismo occidentale preclude, con la sua logica omologante, ogni interscambio: l’Occidente avanzando fagocita le differenze, cosa che per altro lo stesso Marramao ammette, contraddicendosi, quando sostiene che “L’Occidente conosce soltanto una modalità dell’universale: quella della dominazione”. Mostaccio invece sottoscrive il punto di vista di Latouche, secondo cui l’ “Europa non è più un’entità storica o geografica né tanto meno un complesso di credenze condivise da un gruppo umano” ma una macchina impersonale impazzita che sradica ogni differenza a livello planetario ed imprime di sé il mondo, trasformandolo in una tecnopoli, selezionando, insomma, le élites e riducendo a rifiuti gli elementi non funzionali alla sua avanzata. Quando Latouche sostiene che “l’economia e la tecnica sono il cuore del sistema ma non ne sono né l’inizio né la fine”, in sostanza forse ammette che economia e tecnica sono espressioni della logica della macchina impersonale... Questa, comunque, nel suo avanzare non opera una fusione tra le culture ma le domina effettuando un vero genocidio-etnocidio, imponendo i valori di un nuovo colonialismo. Al termine di questa espansione, sottolinea Mostaccio, a trionfare non è l’umanità in quanto essa viene ridotta a una condizione di sudditanza. Quindi Mostaccio si concentra su quella che è certamente una buona prospettiva da cui osservare e provare a comprendere la globalizzazione, la tecnica.

Galimberti: “Col termine “tecnica” intendiamo sia l’universo di mezzi e tecnologie che ne loro insieme compongono l’apparato tecnico, sia la razionalità che presiede al loro impiego in termini di funzionalità ed efficienza” . Ma la tecnica moderna è un’altra cosa: “non è neutra, è totalizzante, non è più oggetto di una nostra scelta ma è il nostro ambiente. Determina le modalità del nostro abitarlo, nella impossibilità stessa dello stare, del permanere, laddove il nichilismo si manifesta in tutta la sua enorme potenza dislocante”. La tecnica è mossa da leggi impersonali che la governano, ruota intorno al reiterato e ciclico autoriprodursi. Galimberti sottolinea che “la maggior parte degli uomini che vivono nell’apparato tecnico non sono consapevoli dell’insensatezza della propria esistenza, avendo assimilato la propria vita a quella dell’apparato stesso, che dispensa quei residuati di senso che, all’interno dell’apparato, sono le diverse ‘funzioni’ ”.

Caterina Resta da parte sua parla di tecnototalitarismo diverso da quello ideologico, fondato su terrore e propaganda (Hannah Arendt). Al contrario, il tecnototalitarismo si fonda su un “ideale edonistico onnipervasivo, controllo di tutte le sfere dell’esistenza tramite un sistema inappariscente, persuasivo e seduttivo tale da indurre le masse, ormai spoliticizzate, a un gioioso “spontaneo” consenso alla perdita delle proprie libertà più elementari”... (Vedi Heidegger)

Mostaccio si chiede se dobbiamo subire la tecnica o corrispondere ad essa. Latouche è convinto che sia possibile de-ambientalizzarla e destrutturalizzare il tecnototalitarismo... Jünger, almeno in una certa fase del suo pensiero, aveva parlato della possibilità da parte dell’operaio di dominare la tecnica (quando la tecnica avrebbe raggiunto lo stadio della perfezione e nel contesto dello stato mondiale).
Oggi al totalità dell’ente è lo sfondo per assecondare globalmente la logica dell’apparato tecnico-scientifico.
Mostaccio sostiene che sia necessario individuare “il centro immobile del movimento” e comprendere gli aspetti fondamentali di questo fenomeno per provare a invertire rotta...


La globalizazione, intesa da Mostaccio come il compimento della modernità, in cui continuano a riflettersi, dominandola, le istanze nichilistiche tecno-economiche del razionalismo occidentale, oltrepassa i confini della forma-stato, forma politica per eccellenza della modernità, oggi in agonia, ponendosi costantemente al di sopra dell’obsoleta distinzione tra interno ed esterno e manifestandosi, come dice Galli, come una spazialità paradossale che fa sì che in ogni punto si manifestino le logiche del tutto: manca perciò l’interscambio, prevalendo l’imposizione della logica strumentale e utilitaristica che informa di sé la totalità dell’esistente.

Derrida: sottolinea il crescente disequilibrio della globalizzazione.Il progetto seduttivo (benessere e felicità per tutti) è un’utopia. Il crollo dei confini si è tradotto nella proliferazione di nuovi e invisibili confini più escludenti di quelli storici, barriere vere e proprie tra gli spazi dell’opulenza e gli spazi della povertà.

(L’Occidente non è più opulento da un pezzo!!!)

Kapuscinski: la parte sviluppata del mondo si circonda di una cintura protettiva di disimpegno: le notizie che vengono dal di fuori sono rappresentazioni di guerre, fame, malattie,... una minaccia: tutto quanto non rientra nella logica dell’opulenza viene marginalizzato o considerato connaturato a quei popoli estranei alla tradizione della razionalità occidentale, piuttosto che considerato l’effetto di una logica utilitaristica perpetrata da secoli

La globalizzazione si struttura su una differenziazione spaziale sradicata, basata non sulla distinzione tra diversi soggetti politici, bensì su quella tra spazi della ricchezza e della povertà. Il razionalismo calcolante riduce tutto a numero, a funzione sostituibile, gli uomini interessano per il loro rendimento oggettivamente calcolabile (Simmel, intellettualismo). Nell’epoca del più assoluto individualismo, che ha sostituito l’idea del “comune”, il suo contraltare logico-esistenziale è la più assoluta uniformità, che sottende alla sostituibilità. Nell’ottica della mega macchina tecno-scientifica-economica, l’individuo diventa un ingranaggio funzionale che può tradursi in uno scarto se ostacola il buon funzionamento dell’apparato in questione.

Anche se teoricamente la globalizzazione si dovrebbe fondare sulla libertà di movimento, come dice Bauman, “si nega agli altri quella libertà di movimento che dovrebbe essere il massimo risultato della globalizzazione”

Libertà alle merci, ai capitali, ma non agli uomini, in nome della difesa del tenore di vita degli abitanti della“fortezza”.
Globalizzazione strutturata su sfruttamento e ineguaglianza.
Zolo: per difendere la cittadella dell’opulenza (non equamente partecipata) si ricorre alla guerra non più estrema ratio, come l’epoca dello statalismo, ma condizione normale per garantire la sicurezza e il benessere dei paesi industrializzati.

Negri: il nemico va continuamente costruito, inventato
Galli: lo scontro di civiltà e il mascheramento ideologico di intessi armati. Non sono le civiltà ad armarsi.
Derrida: non si può identificare terrorismo e guerra, a parte che il primo è un prodotto della politica di potenza USA, non è legato ad un territorio come la guerra civile o le lotte partigiane.

Negri: la pace non si distingue dalla guerra, guerra e pace si confondono dentro la matrice unica della Biopolitica; nella biopolitica moderna sovrano è colui che decide della vita e della morte , sul valore e disvalore della vita in quanto tale. Lo sterminio è equiparato ad una qualunque pianificazione industriale, è una delle manifestazioni di quel pensiero calcolante che mira al dominio del reale attraverso la riduzione della totalità dell’Ente all’omologo quantificabile (Heidegger: industria alimentare nella sua essenza= fabbricazione di cadaveri = blocco e affamamento di nazioni = fabbricazione bombe.

Oggi prevale rispetto alla vita e morte di individui una logica seriale, in base alla quale la morte perde la sua dignità, i cadaveri si decidono nelle stanze del potere (morte in serie)
Resta: nel compiersi della modernità, lo sterminio è divenuto ormai condizione normale e destino planetario a cui niente può sottarsi.

Arne Naess, padre dell’ecologia profonda: legame originario tra uomo e natura, tra tutto e le parti.
Capra: gli esseri sono legati al loro ambiente. L’ecologia profonda non vede il mondo come oggetti separati, ma interconnessi, riconosce il valore intrinseco di tutti gli esseri viventi e considera gli esseri umani come un filo particolare nella trama della vita. Un olismo radicale considera l’uomo come parte di tutto e riconverte il suo stare al mondo ad un rapporto di reciprocità. Invece oggi il pensiero calcolante, mirando al dominio della totalità dell’ente, riduce mondo, natura ed uomini a “fondo” a sua completa disposizione in vista dell’impiegabilità e sfruttabilità.

HARDT-NEGRI: la globalizzazione trova il suo corrispettivo socio-politico nell’impero. La natura reticolare dell’Impero sostanzia un’idea di sovranità che disconosce il fondamento escludente della moderna sovranità statale; la sovranità imperiale invece è immanente e includente e si diffonde come un virus telematico, non distrugge i poteri differenziali che incontra nella rete bensì li integra riconvertendoli alla sua logica inclusiva. Allergia ai confini: spazio sradicato e aperto libero di essere attraversato da tutti gli uomini tradotti nello spazio omologo della più totale indifferenza. Nel suo ordine pacifico tutte le differenze vengono neutralizzate. Impero= spazio liscio

Mostaccio critica questa posizione: anche le istanze tecno-economiche travalicano i confini statali, nuove divisioni e barriere sorgono innumerevoli, fino alla fortificazione degli spazi dell’opulenza e fino a negare quella libertà di movimento che gli autori considerano connaturata alla forma imperiale.

Gli autori si aspettano la liberazione da parte di quel soggetto politico che è la moltitudine, senza rendersi conto del terrore perpetrato ai danni di chi non vuole sottomettersi alle istanze imperiali (i superbi di cui parla Cacciari. Cacciari critica anche chi sostiene che l’impero non distrugga le culture e le tradizioni, ma ne assimili i contenuti diversificando la propria sovranità. Cacciari obbietta che la globalizzazione esercita un vero imperialismo, disintegrando le varie culture ed imponendo ai vinti le norme del vincitore). Gli autori distinguono tra impero ed imperialismo, ritenendo il primo adatto alla libera circolazione del capitale del lavoro delle merci (mercato mondiale).

CRITICA: non è vero che il mercato attuale faccia sempre circolare merci e uomini, non è vero che ha abolito le pratiche protezionistiche, non permette sempre la libera concorrenza, ne riduce le pratiche di controllo degli apparati dirigenziali. Al contrario la globalizzazione esprime logiche imperialistiche, dove i nuovi aggregati legiferano in difesa delle multinazionali.

Sia Zolo sia Dal Lago-Mezzara sottoscrivono l’idea che la globalizzazione risponda a una logica imperialistica.

Il nuovo ordinamento del mondo dovrà essere fondato su un PLURIVERSO di spazi differenziati.
Kant parla di una confederazione di stati che dovrebbe garantire una pace perpetua: l’umanità dovrebbe pervenire a questa civitas gentium necessariamente, dal momento in cui tutti gli uomini partecipano con la stessa ragione (carattere etnocentrico dell’universalismo kantiano: la ragione non è universale, ma quella particolare del nazionalismo occidentale che ha condotto alla occidentalizzazione del mondo).

Un nuovo nomos della Terra dovrà salvaguardare le differenze e la reciprocità tra i vari soggetti; ma non può esistere un nomos senza spazio e senza confini. La visione olistica dell’esistenza dell’ecologia profonda è la logica a cui ci si dovrebbe ispirare: la varietà della vita non va sacrificata alla logica del profitto.
Collettivo 33: non è ospite quello che accogliamo nel nostro ethos e che può trasformarsi in nemico. Siamo anche noi ospiti, anche noi accolti dal e nel mondo.

Al di fuori di una concezione onnivora-coattiva dell’universalità Cacciari ha provato a far convivere le istanze dell’universalismo, inteso diversamente..., con la necessaria salvaguardia delle differenze nella metafora logico-concettuale dell’Arcipelago, che consente di accordare l’assoluta distinzione delle figure con la necessità della loro relazione. Arcipelago come baluardo contro l’omologazione: nonostante il mare sia sempre in movimento, le isole mostrano la loro assoluta singolarità. Dia-logo tra differenti che tali devono restare nel loro essere singolarmente esposti ad un necessario contatto. Il dialogo ha bisogno del molteplice; orizzontalità relazionale: le singolarità si appartengono l’un l’altra, nessuna dispone in sé del proprio centro, perché il centro sta nella relazione. L’arcipelago è plurale, perché la sua sussistenza si fonda sulla dialettica identità-differenza.

Friese: parla di una identità nell’orizzonte della temporalità, quindi non di qualcosa di immutabile ma che cambia nel tempo: perciò bisogna pensarla come salvaguardia della differenza.

Come conciliare l’identità di ciò che accomuna con la necessaria salvaguardia delle differenze, al fine di evitare che l’indifferenziato del comune prevalga sull’immensa tavolozza delle differenze? La struttura dell’arcipelago si fonda su un irrinunciabile pluralismo da preservare costantemente entro lo spazio di ciò che accomuna: tale salvaguardia reclama il riconoscimento dei “confini”, che non sono delle frontiere escludenti: il confine distingue accomunando, è la linea lungo la quale due domini si toccano, il confine stabilisce una distinzione determinando una ad-finitas: fissando il finis si determina un contatto. Nessun confine può eliminare l’altro o escluderlo perché lo implica nella sua essenza.
Il nomos-arcipelago può preservare la reciprocità tra i distinti e riconosciuti soggetti politici nel nome di un pluralismo tutto da reinventare, per sottrarsi all’uniforme dell’indifferenziato spazio omogeneo della globalizzazione.

Derrida: le politiche della tolleranza non si fondono mai su un riconoscimento dell’altro da sé.

L’arcipelago è la metafora di un “nomos” della Terra scardinato che riconosce nell’enorme ricchezza rappresentata dalla diversità l’unico “cardine” intorno a cui strutturarsi. Secondo Mostaccio è una soluzione da praticare, l’estremo tentativo di un rinnovato “radicarsi”, laddove ogni stare sembra impossibile; un tentativo di sottrarre terreno all’uniforme oceano dell’indifferenziato che annulla ogni peculiarità.


Invece di tentare ampie sintesi o interpretazioni generali di un testo che, come ho detto, è già di per sé molto chiaro, ho voluto seguire passo passo lo scavo effettuato da Mostaccio nel suo tentativo di risalire alle origini del nichilismo, convinto come lui della complessità e storicità di un fenomeno che necessita di un’indagine a tutto campo, che vada cioè in varie direzioni.
Nel seguire l’itinerario del nostro autore, mi è parso di rilevare una sua implicita polemica con quelle visioni del mondo antitetiche alla Weltanschauung capitalistica, che finiscono per essere come quella totalizzanti. Non c’è dubbio, infatti, che Mostaccio rifiuti il capitalismo e le sue logiche ritenendole responsabili, insieme al trionfo della tecnica, dell’attuale stato delle cose ma, forse la recente esperienza storica del crollo dei regimi del socialismo reale, lo porta a una certa prudenza nel credere a panacee o farsi carico di soluzioni antitetiche ma altrettanto assolute. A parte ogni cautela, c’è anche da dire, appunto per restare in tema, che il libro del nostro autore, anche nelle ipotesi di lavoro proposte, è poi improntato a un razionalismo debole e sperimentale, a un “relativismo” e a un costante confronto con l’alterità, che più che espressione di prudenza diventa metodo nuovo di ricerca e di approccio ai problemi.
Farsi carico della propria finitezza e di un orizzonte mondano da informare di valori assolutamente umani, sembra dirci Mostaccio anche sull’onda della lezione nietzscheana, significa appropriarsi di una visione del mondo e di un approccio inediti, di un metodo che guardi con sospetto i punti di vista assoluti e cerchi soluzioni nel dia-logo, nel confronto. La metafora dell’Arcipelago con la riflessione sui confini che l’accompagna (“ il confine stabilisce una distinzione determinando una ad-finitas: fissando il finis si determina un contatto. Nessun confine può eliminare l’altro o escluderlo perché lo implica nella sua essenza”) è forse quella che meglio si presta a definire anche il metodo con cui Mostaccio si accosta ai problemi, tanto nell’analizzarli quanto nell’ipotizzare soluzioni.


Avevo anticipato all’inizio che avrei avanzato qualche riserva a proposito dell’analisi del fenomeno della Globalizzazione. Sono d’accordo con Mostaccio che questo fenomeno vada compreso e riportato nell’alveo della modernità di cui può intendersi come un fenomeno ipermoderno e non postmoderno, come altri vorrebbero, ma credo che ciò vada fatto nella misura in cui la modernità si riconduce al capitalismo... E, allora, perché parlare di Globalizzazione? Forse perché la logica dell’accumulazione e del profitto e quella del valore-merce si è estesa all’intero Pianeta?
E come intenderla? Forse come una fase qualitativamente nuova del capitalismo? Oppure come una strada che il capitalismo non poteva non imboccare visto le logiche a cui obbedisce? E, bisogna considerarla come una fase di crescita? di stallo? di regressione? E come spiegare tutto questo? Poi, mi sorge la domanda: a quale data dobbiamo rifarci per indicare la nascita della Globalizzazione?
Il termine, come sappiamo, si diffonde negli anni ’80, soprattutto sull’onda del grande movimento speculativo che caratterizzò quel decennio e che ha fatto gridare molti al miracolo, segnalandola come una fase del tutto nuova del capitalismo. Negli anni ’90 la Globalizzazione è stata spesso accostata al concetto di postfordismo...

Sull’avvento della Globalizzazione, come espressione della modernità compiuta, fenomeno nichilistico che registra il trionfo a livello planetario della logica omologante del razionalismo calcolante e più ancora di quella capitalistica del profitto, ripeto, sono totalmente d’accordo.
La Gobalizzazione è però, secondo me, anche qualcos’altro: a mio parere, è doveroso distinguere infatti tra quanto dell’attuale stato delle cose dipende, sempre e comunque, da quanto si è appena detto, cioè dalle logiche del razionalismo occidentale e del capitalismo, e quanto invece dalla crisi di lungo di periodo e dal rallentamento a lungo termine nella crescita che spesso e impropriamente – certamente non da Mostaccio – è interpretato come una fase qualitativa e nuova nella storia del capitalismo moderno, cosa che invece non è.
Il problema sollevato non è, a mio avviso, di poco conto, anche dal momento che alla maggior parte degli interpreti sfugge. La globalizzazione si colloca in una fase di declino del capitalismo stesso, in quel momento cruciale in cui, mentre il capitalismo s’impone economicamente e culturalmente a livello planetario, allo stesso tempo entra in una fase di declino forse irreversibile. Ciò che, a mio avviso, è assente nelle interpretazioni attuali della globalizzazione, e ne limita la portata euristica, è dunque il concetto di crisi del capitalismo...
Anche se sarò l’ultimo a tessere le lodi del capitalismo, per verità storica, non posso evitare di precisare che molte delle degenerazioni imputate dagli autori citati da Mostaccio e anche da lui stesso alla globalizzazione sono espressioni della performance del capitalismo in questa fase storica, quella subentrata alla fine del Golden age postbellico. Il senso di precarietà di oggi non è la logica conseguenza del razionalismo occidentale (o per lo meno lo è nella misura in cui il capitalismo è strutturalmente destinato alle crisi) né tanto meno di quello che il capitalismo è stato fino agli inizi degli anni ‘70 (garantendo all’Occidente il più alti livelli di benessere mai registrati e un welfare oggi nemmeno immaginabile), ma appunto la conseguenza del fatto che quei livelli di crescita non ci sono più da un pezzo. Negli anni del grande boom economico postbellico, la cosiddetta forbice sociale si ridusse e la crescita garantì vantaggi a tutti, proprio perché, in una fase per l’Occidente di quasi piena occupazione e integrazione dei lavoratori, questi potettero sfruttare una posizione di forza per ottenere aumenti salariali e mantenere col salario lordo un formidabile stato sociale. In senso opposto, appunto come effetti di una crisi economica di lungo periodo, vanno intesi l’odierna posizione di debolezza dei lavoratori, la lotta tra poveri e lo sfruttamento del lavoro a livello planetario, l’erosione del welfare, la concentrazione degli spazi dell’opulenza e l’estensione, al di fuori e dentro le mura dell’Occidente, delle aree di precarietà e povertà.
Dicasi lo stesso per quanto riguarda la cosiddetta affermazione della tecnica, cosa che non si registra certamente al livello degli investimenti produttivi, dove vige una tendenza declinante da decenni: in campo industriale decrescono gli investimenti e aumenta lo sfruttamento della manodopera.


sabato 12 marzo 2011

"La luna e i falò" Intervista radiofonica



"Riflessi di Modernità. Nichilismo e globalizzazione"
Flavia Weisghizzi intervista Domenico Mostaccio durante la trasmissione radiofonica "La luna e i falò" (11 Marzo 2011)