domenica 12 novembre 2017

Appello per la Libreria Gutenberg

“Il potere ha avuto bisogno di un tipo diverso di suddito, che fosse prima di tutto un consumatore” (“Scritti corsari”, P.P. Pasolini)

Monta sempre più la marea dell’omologo a sradicare radici, a spianare le rappresentazioni di ogni alterità, che si nutre di endemica differenza, a svilire, con metodica costanza, ogni spazio di libertà per l’affermazione unidirezionale di sé, di un pensiero unico, che si manifesta in una reiterata ed inarrestabile reductio ad unum.
In questo spazio di non-luoghi insorgenti, simbolo di una mercificata acculturazione e di una massificazione pseudoculturale trionfante, salvaguardare i simboli di una diversità quotidianamente annunciantesi di presenza è un dovere non solo individuale, ma un bisogno collettivo, un’esigenza irrinunciabile per la difesa di quel valore pericolosamente disturbante e liberatorio, che si chiama SAPERE.
Svuotare di senso e di dirompente vitalità il sapere e la cultura, appianare ogni capacità di analitica e critica comprensione, eliminare a forza ogni necessaria assunzione di reale responsabilità verso sé stessi e verso la collettività presente e a venire è il fine recondito di un progetto di lungo corso, che ci sta consegnando alle catene in vendita del non senso, a quei non-luoghi, simbolo, ormai universale, di riproposizione luccicante di un abominevole bisogno di controllo di menti e corpi: biopolitica che si fa biocultura dissennata.
Entrare nelle librerie da catena, spersonalizzante trionfo di guittezza a colori, è come entrare in una batteria di polli da allevamento, ove tutti sembrano liberi di essere null’altro che consumatori seriali dei desiderata materiali ed infinitamente accattivanti di un mercato che si nutre soltanto di pubblicizzata autoreferenzialità: il libro-merce, nuda offerta al consumo spudorato ed innaturale di sé.
Nel deserto sapienziale che avanza di dominio, le librerie indipendenti, tenute vive da passione e sapere veri e sinceri da librai che ancora ci parlano, indicandoci un’ultima uscita fuori mercato da copertina, che i parvenu del mercato da pubblicità martellante scientemente ignorano, oppure l’angolo ultimo di misteriosi testi che implorano attenzione, sono sempre più impossibilitate a permanere in vita, inghiottite e rigurgitate da un mercato che richiede merci anziché libri, che impone non-luoghi disintegranti di pensiero piuttosto che oasi rigeneranti di libertà, vetrine illuminate di idiozia al posto di spazi illuminanti di analisi critica del reale per incontro non virtuale: il dominio di un razionalismo degenerato si sta oltremodo manifestando, a chi lo vuol vedere, dietro il luccichio di colori e paillettes da incubo.
Aiutare a rimanere in vita la Libreria Gutenberg non è un semplice atto di solidarietà per Giovanni, non è soltanto un sostentamento, pur naturale, per un amico, ma solo un puro atto di “egoismo intellettuale”, un autentico simbolo di un puro e sacrosanto “egoismo”.
E se “laddove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva”( Friedrich Hölderlin), allora la
salvezza-salvaguardante di noi, amici del libro-mondo, è lì, a portata di mano, in Via
Ferdinando d’Amico al numero 45.

domenica 16 luglio 2017

E 15!!!!

     1,2,3…13,14,15 anni, cento passi dall’origine, dove maturavi competenza al servizio d’altri, per imbarcarti, poi, per costrizione da altrui malafede, in un’avventura titanica, considerati gli spazi offerti e le vite indefinite d’un luogo, paradiso solo in potenza, in atto, altro da sé, dalle sue radici, dalla sua storia millenaria, ad ogni passo tradita, vilipesa, offesa.
     Posizione strategica lungo l’asse principale di un andare, che dal declivio di colline, per confine di torrente, che sa nutrirsi di impetuosa distruzione per artificio indotta, si snoda lineare, solo nel tragitto, fino a quel Seme, simbolo di rinascita mai rinata, che svetta ad invocare, disarmante eco di riflusso, radici lontane, ormai appassite, fradice e, pur sempre, rinnovate di speranza e…in medias res, la “Libreria Gutenberg”, nella sua discostata centralità, visibile solo a chi la vuol vedere, accostandosi, per multiformi interessi o solo per curiosità da riparo, ritrosa a sguardi superficiali da passeggio o da affari malati.
     Sta lì, sospesa tra luoghi maledetti, scrigno di profitti recidivi, e la sosta, riffa quotidiana, di un terno per la deposizione momentanea di mezzi da trasporto, vettori di non si sa mai cosa, col suo occhio di vetro spalancato su un passaggio-passeggio ritmato nei suoi tempi monotoni, riprodotti in serie, all’infinito, dalle stesse facce, dalle stesse discussioni, dalle stesse ombre, sempre più ombre di se stesse, nel reiterato sfiancarsi di un non-senso in alterna sospensione.
     Eccola qui, lungo l’asse mediano di un Liberty in decadenza, metafora, per nulla velata, di una decadenza di Libertà reietta, in una parvenza di normalità da provincia eterna, a donarsi, stanza dello scirocco d’esistenza, refrigerio all’abisso annebbiante, che ci coglie nell’essere “sciroccati” perenni, per vite che non si vorrebbero marginali, pur sempre avvolte, avvinghiate, stravolte, strascicate dal morbo infetto di una calura malsanamente appiccicaticcia, ad offrirti, in un caos emotivo e di pensiero, un riparo, un caloroso abbraccio in faccia al mondo che va, di corsa, incontro al suo destino.
     Un velo vitreo a separare un marciapiede marciante di gomme da un altro mondo, segnato all’entrata da un metallico suono di spiritualità d’Oriente, ad annunciarti momentanea rinascita, mentre, con animo predisposto, fra una spirale di avvolgenti parole colorate, ci si sente richiamati all’ascolto, reclamando presenza, visione, vita di lettere e sillabe a chiederti comprensione, ad implorare contatto di pelle e visivo, al limite finanche olfattivo, versus inodori caratteri omologhi da macchina, per essere strappate dal gorgo del non-senso in vitalità di senso rinnovato; un velo vitreo a proteggere ogni avventore, che, in ritrovato spazio di libertà, può assaporare l’ormai sempre più negato brivido dello scegliere, la vertigine del decidere in soggettiva, guidato da un sentire in proprio, pensante, negando ad alcuni testi visibilità, ad altri accordando partecipata attenzione o, tutt’al più, superficiale, ma apprezzato sfrigolio di pagine in successione visiva-olfattiva o parziale accordanza di sfuggente comprensione.
     E dentro, di sorniona presenza, navigato ulivo saraceno, ad accoglierti, in stati d’animo alterni, per vita andante anche oltre il velo vitreo di separazione, richiamato da un pressante chiedere in scadenza, che va ben oltre lo spazio di salvaguardia includente, ove ha piantato radici, che imposizioni di profitto imborghesito vorrebbero spianare, spiantare, ma “resiste”, annaffiato, irrorato per sprazzi di vitalità, da eventi di tempo destinati alla protezione, blandito da sguardi lievi ed accudenti, donati, in parsimonia, a chi diventa eccezione, riserva, amorevole partecipazione di destini, sospensione accordante-discordante di scambievole posizioni per punti di vista in movimento alterno, laddove, al fruscio di fronde animate da un venticello di pensiero in libertà, se lo si ascolta, si possono percepire folgoranti sprazzi malinconici di sapienza di tempi andati, di gioventù vissuta dentro la speranza di un mondo altro, ove la cultura si innestava, nutriente, di vitalità pratica ed intellettiva, non sempre concreta, ma possibile, come speranza, oggi disperata, ad accoglierti, tra sapienza di fiori e cibi, di piante e letteratura, di schegge illuminanti di malinconica dolcezza e di annoiata sapienza.
     In tempi di Modernità squilibrata, nel gorgo infetto di un sommovimento virtuale costante, ad ingabbiare menti e corpi diversamente innaturali, in tempi vacui di pensiero ed omologhi di guittezza, la “Libreria Gutenberg” si dona ancora, oasi di libertà, radura sottratta all’inquinamento del reiterato, con un tempo sospeso, ove ciascuno, nello spazio di istanti rinnovati di piacere, può essere felice a modo suo.  

lunedì 6 agosto 2012

Intervento in occasione del decennale della Libreria Gutenberg (04/08/2012)


Da Via Roma 73 a Largo Ferdinando D'Amico 41, da Amicolibro alla Libreria Gutenberg, cento passi a trasfigurare ipotesi d'esistenza, da traduzione nominale d'amicizia con intermediario il libro a richiamo fondativo d'arte, solide radici cui abbarbicarsi in tempi di montante marea dell'omologo: trent'anni di attività libraria per il “Signor Gutenberg”, alias Giovanni Mazzeo, dieci anni di vita per la “Libreria Gutenberg”, ragguardevoli traguardi in tempi e luoghi refrattari al pensiero, al piacere della conoscenza tout court, aliena da necessarie applicazioni manifeste, restia a compressione spazio-temporale, libera di essere finalmente libera.
Cento passi, avamposto di resistenza spostatosi in avanti, o forse semplicemente penetrato nel tempo e nei tempi con rinnovata vigoria, coniugata a viva passione nell'atto del sopravvivere di sé, mera sussistenza quotidiana, e di sopravvivenza di un barlume di civiltà in speranza, laddove speranza è morta e civiltà scarseggia.
Giovanni si affacciava al mestiere di librario quasi in contemporanea alle esplorazioni bibliofile e bibliografiche del Guglielmo da Baskerville de “Il nome della rosa”, meticoloso quanto il francescano nella ricerca di senso al suo andare, tradottasi, nel tempo, nella ricerca collettiva di un andare alla ricerca di un senso laddove Babele brucia e risultano del tutto vani i tentativi di salvare il salvabile nel degrado generale di un fuoco mai purificatore, ma dis-velante sempre e solo macerie.
Eppure è lì, al centro di questa città, luogo non-luogo, pachiderma boccheggiante, nel marasma generale, in un'aria ammorbata da lezzo da tempi ultimi, a resistere, al centro di questa città, quasi a volere rap-presentarsi come epifania in esplorazione, impossibilitata a scostarsi da dove il dio dei libri lo ha gettato ad espiare la sua colpa nella forma dell'attuale presenza.
Per le sue mani persino Camilleri, da clandestino della cultura, si è trasfigurato nel Commissario Montalbano, nostalgico di lettere e giustizia quanto il platonico clandestino da caverna della conoscenza, planetario signum di una costante ricerca che solo apparentemente risolve casi, svela, districandole, le trame del male, per riav-volgerle, rian-nodarle, ri-velarle in intrighi altri, tanto sconosciuti quanto irrisolvibili, accompagnandoci per i luoghi più superbi in estetica di Sicilia, nei tempi in-naturali della sua millenaria storia, per volumi che adocchiano il lettore da uno scaffale in angolo a chiedere com-prensione, com-passione, presa di visione, insomma “cura”, che si traduce sempre in cura di sé, del proprio spirito andante per sentieri interrotti, spirito che si pretende libero e si riscopre libero di inoltrarsi ancora per i luoghi delle lettere per riscoprirsi ancora più libero ad un livello sempre più alto, cammino da tornante in un vortice di polvere e schegge di sapienza in atto.
Giovanni sta lì, sempre al centro, segnavia luminescente, a fornire strumenti, ad accogliere il viandante della ricerca quanto il cercatore di una via, lo straniero disorientato per le vie di questo labirinto di senso a nome Barcellona. La “Libreria Gutenberg” si posa silente su questo scoglio impervio, fungendo da approdo per incauti viaggiatori del senso, per novelli Ulisse di bassa lega, per fini intellettuali di provincia destinati al ristretto dello spazio, contraltare a menti che si nutrono di internazionali spasmi di visione, per avventori sbadati, per pochi turisti svagati, accaldati, stranieri in terra d'accoglienza reclusa in tempi ormai definitivamente andati, per annoiati passanti in cerca di istantaneo calore o momentaneo refrigerio, per solitudini che si vogliono accolte dalle innumerevoli parole saltate fuori dall'anima di pagine ritornate finalmente bianche per mescolarsi indistintamente in un vortice meravigliosamente anarchico, abbandonate agli occhi inesausti ed alle prensili mani di chi le vuole semplicemente ri-visitare, ri-ascoltare, ri-abbracciarle per rin-novarle e ri-avviarle in un orizzonte che possa diventare finalmente e definitivamente “altro” dallo spazio dell'omologa guittezza imperante.
Giovanni sta lì, sta sempre lì, in visione, a vendere il mondo per i libri ed i libri per questo piccolo mondo antico; la “Libreria Gutenberg” sta lì, sempre lì, appoggiata ad un virtuale luogo dei sogni nella visione ammorbata di un sistema economico malato, vale a dire ad una banca, sperando, il Signor Gutenberg, di fornire ancora riparo e donare lieve ristoro ai sogni di chi non aspetta altro che farsi avvolgere da quel vortice di parole e buon senso che accoglie il viandante al tintinnio esotico di una porta che si affaccia su Largo Ferdinando D'Amico 41.         

martedì 5 giugno 2012

"Il posto delle cose " di Saverio Vasta, Pungitopo, Marina di Patti 2011. Recensione di Domenico Mostaccio.


E venne la stagione del silenzio
l’inverno volò via come un baleno
inchiodando in levare l’avambraccio
svuotando d’inchiostro la penna” (“La stagione del silenzio”, in Lo spergiuro del gallo).

Con questi versi, che lasciavano presagire silenzio alle mani ed agli occhi, intuire lo smacco del dir-si poetico di fronte ad una realtà mostratasi, agli occhi del nostro autore, inadatta ad essere rap-presenata per interposta mediazione poetica, Saverio Vasta concludeva la sua prima silloge dal titolo Lo spergiuro del gallo.
L’avambraccio inchiodato in levare, nel suo ardire da manifesto poetico, non si è per nulla anchilosato, svuotato di vigoria intellettuale, ridestatosi come è ad accompagnare scintille di intuizione e comprensione, risollevandosi dal luogo placido della noncurante presa di distanza da buon ritiro, non per additare, screditare, o peggio ancora, per segnare semplice quanto superflua segnalazione di presenza, ma ad indicare, districandosi fra le ragnatele gnoseologiche ed i refusi sensibili di un sé in fieri nel magma d’annichilente movimento, possibili incognite di senso, a cogliere gocce di nitore, seppure opache, nel deserto valoriale e d’esistenza di questi nostri sgraziati tempi.
La penna, vivida, rorida di splendore, finanche traboccante in ghirigori lessicali a blandire formali virtuosismi verbali, è tornata a ri-tra-durre in segni, latori di un possibile senso, con costanza ricercato, il sentire-di-sé-nel-mondo, salvaguardando, contraltare segnato da retaggio di tempi in disuso e da buon senso d’annata, le stigmate del sacro luogo del silenzio, luogo dell’anima da preservare, a denti stretti e pugni chiusi, entro i non luoghi, digrignanti d’assordante disastro, della contemporaneità.
Ecco, allora, a distanza di tre anni, la coessenzialità di vigoria intellettuale e naturalezza del segnare presenza di identità farsi versi in una novella silloge dal titolo Il posto delle cose.
L’incipit d’esordio del testo segna all’istante la presa d’atto in coscienza dello status quo, senza acritica adesione né superbo distacco, compiacimento intellettuale o acredine del sentire: pura e semplice assunzione d’“oggettività”, posizionamento in prospettiva di sé nel flusso del divenire, cristallizzatosi nell’in-forme manifestazione del tempo in delirante esposizione di sé: “Non c’è confine né trincea / tra il villaggio e la metropoli / tra i raccordi anulari e le trazzere” (Altrove è l’oro, p.13). Venuto meno il cum-finis, origine di marcata de-finizione, segnalazione di presenza propria a segnare principio di mobile identità, svanisce il principium che nomina l’idem e de-finisce l’alterità dell’alius, prevalendo l’in-definito, la commistione ibrida a negare la visibilità del se stesso pubblico, a tutto vantaggio di un melting pot esistenziale-culturale da orizzonte liquido, traccia di postmodernismo abbagliante agli occhi dei più.
Vasta sembra muoversi allora tra l’impossibilità di spezzare il nodo di Gordio, che lega indissolubilmente Tradizione e Modernità e l’impossibile salvaguardia di tale ferreo legame nell’orizzonte di una Postmodernità, colta, o piuttosto sentita, per presa d’atto, obbligato ad aderire, come appare in controluce, per costrizione d’analisi, dunque per la ragione, giammai assunta, laddove la stessa veramente si fosse in-verata e si fosse noi in essa definitivamente invischiati, per condivisione d’orizzonte tout court. Si reclama, a testimonianza di implicita scissione fra gnoseologica attività di constatazione e volitiva tensione resistente alla succube adesione, un “altrove” totalmente altro tanto dalla inconsistente liquidità dell’essente contemporaneo quanto dalla rigidità di quelle signature con-finanti, che hanno de-finito la Modernità, di un “altrove” scevro da qualsivoglia esistenza da campo, governata dalle ferree leggi di un razionalismo strutturante se stesso per computabilità, calcolabilità, sfrenato riduzionismo da svanimento dell’esserci, fino “al culmine dell’entropia” (Giro di giostra, p.17).
Fra gli estremi di questa impossibile soluzione Saverio Vasta torna a pro-durre versi, a poetare, da artigiano della parola, riconsegnando con chiarezza e pudore le parole alla originaria поίησις, all’essenzialità di quel ποιέιν tracciante dis-velante presenza di senso: il suo poetare, nei momenti di più alta liricità, si imprime come un “nominare”, che re-clama alla presenza quanto prima del “detto” poetico altro non era che un ente in confusione.
Nell’orizzonte di una computabilità calcolante, che sembra “tutto ridurre in sequenza di cifre” (Il male dei numeri, p.22) ecco allora farsi strada il ri-nominare, nello spazio radicale della memoria, e farsi dunque rinnovamento, seppure in-utile, di uno status ormai definitivamente consegnato alla nostalgia, doloroso viaggio di ritorno, i gesti di una tradizione tradita, ri-velata solo nel salvaguardante “essere detto” della trasfigurante parola poetica: “Bacchia l’oliva” (L’oliva, p.24), alla gallina “le esperte mani della nonna / [le] aprivano il petto” (La pannocchia dalla cresta d’oro, p.27), “odori di vendemmia / e gorghi di mosto nel palmento” (Comparse, p.31). Si configura, così, “il posto delle cose”, in coincidenza atemporale distratta dai contenuti, con “il posto delle fragole” di matrice bergmaniana, come il luogo della Memoria, ove il rinnovantesi ri-nominare delle cose prende avvio dal profumo di novella madeleine del profondo sud di penisola dal sapore d’olio bacchiato, di mosto annunciante vino, di carni da campagna viva, di pannocchie dorate al sole di pentola antica.
Pur rimanendo fedele alla terra, nella duplice valenza di costante richiamo alle tradizioni agro-bucoliche, ovviamente rivisitate e trasfigurate dalla liricità d’occhi in contemplazione, proprie della sua infanzia e della sua terra d’origine e di una adesione critica all’orizzonte della mondanità, mondata dagli eccessi verbali di chi fa dell’ultraumanesimo scientista professione di inattaccabile fede, Saverio Vasta, coniugando un sano razionalismo di matrice socratica con quel dubbio scettico, secolare fiume carsico, che attraversa l’intera tradizione del pensiero occidentale, “un po’ diogene un po’ socrate / la lanterna fioca e l’anima sperduta” (E la musica tace, p.42), si pone in ascolto dei tempi da fine Impero, cogliendo le tracce che nichilisticamente li connotano, laddove il riduzionismo, la compressione spazio-temporale si accompagna ad una vena esistenzialista, che sembra annichilire non solo lo spazio libero del pensiero, ma anche il più intimo degli spazi dell’esistenza, quello che nel suo tra-dursi lega indissolubilmente il sancta sanctorum della propria identità alla pubblica dimensione di sé, che, laddove diviene cum-dividere si fa “pubblicità” e, nelle sue più alte espressioni, “politica”, vale a dire il luogo-non luogo delle volizioni, delle rap-presentazioni oniriche, delle utopie: “È tempo di sogni rateali” (Il nostro giorno, p.21).
La religiosa sospensione del giudizio, anticipata dall’incontro a tu per tu, sebbene in controluce, con la figura di un Cristo fino in fondo cristiano, uomo totale, che fa del suo proprio e precipuo umanesimo il miracolo vero d’umanità, “Chiedigli se ha spezzato il pane o la croce / se t’ha destato dal sonno o dalla lenza / se t’ha adescato o teso una trappola per sviarti. / Se il miracolo fosse che parlava ai pesci / o ch’io parli con te di lui” (Il miracolo, p.43), viene, dal nostro autore, innervata da una rinnovata gnoseologica sospensione di giudizio con-naturata alla finitezza dell’uomo, la cui partitura d’azione si lega ai limiti delle proprie possibilità esperenziali, finite, sullo sfondo di un infinito, che ci inchioda, divina vendetta, alle umane possibilità mancate: “ora che Icaro è ricamo di piume / sul nero dell’onda” (Il volo, p.16). Saverio Vasta sembra suggerirci che i limiti della conoscenza non possono essere, orizzonti costantemente dilatati, spinti a forza sempre più in là, forzando continuamente la mano a ciò che è “naturale”, in nome di uno scientismo, che si pretende autoreferenziale “volontà di potenza” che vuole solo se stessa, richiamandosi ad un morigerato uso della ragione in sospensione, freno alla locomotiva del disprezzo lanciata ad alta velocità contro il muro del tempo: “D’ali si può fare a meno / d’ali si può morire” (Il volo, p.16).
In questa logica dia-logante tra posizioni avverse, che si ri-annodano districandosi per ri-annodarsi ad altro livello, si innesta il versificare del nostro poeta. Se è vero, come sostiene Emilio Isgrò nella Prefazione alla silloge poetica in esame, che le tracce della poesia del profondo sud italico, nello specifico delle assolate-desolate lande della provincia messinese, sono presenti in Saverio Vasta, “Potrà mai infatti un poeta dell’immensa provincia messinese fingere che Piccolo, Cattafi, Reale non siano mai esistiti?” (Prefazione a Il posto delle cose, p.7), altrettanto vivida e manifesta, se nobili padri vanno richiamati a testimoniare per tracciare la cornice di un quadro di famiglia da rendere pubblico all’entrata del proprio poetico edificio in costruzione, sembra essere la lezione crepuscolare di quel Guido Gozzano demiurgo di quotidiana materia d’esistenza tradotta in sublime liricità, non poesia dimessa o delle piccole cose, volendone così spregiativamente sottolinearne adesione valoriale alla piccineria dell’essente, ma in-canto del ri-nominare poeticamente gli oggetti della quotidianità crepuscolarmente illuminati, altrimenti destinati all’oblio dell’enticità reietta: “Un uovo zampetta nel tegame / sul fuoco blu del vecchio cucinino. / Quattro dita picchiettano l’attesa / a un palmo da una scorza di limone. / Didascalia di un crepuscolo” (Crepuscolo, p.46) ………. e mentre Vasta si accinge a consumare per versi il frutto delle proprie intuizioni, nella stanza accanto la signorina Felicita ascolta, assorta, il profumo picchiettante di questo frugale pasto d’attesa, mentre tosta il caffè, cuce i lini e canta e più in là Totò Merùmeni, fra giorni appena nati e poi subito morti, s’accompagna, per costrizione, “con una madre inferma, / una prozia canuta ed uno zio demente” (G. Gozzano, Totò Merùmeni) e, per piacere, ad “una ghiandaia roca, / un micio, una bertuccia che ha nome Makakita” (Ibidem).
Staccate dal corpus principale dell’intera silloge, poeticamente omogenea fin qui e strutturalmente compatta nelle sue direttive poetiche, sembra essere l’ultima parte della raccolta, composta da un numero esiguo di liriche, che potremmo definire “civili”. Se la tensione poetica resta ugualmente vigile e qua e là emergono barlumi di liricità collocabili al livello più alto di quelli predominanti nel rimanente corpus del testo, “Siamo venuti su a latte caldo e paura / all’ombra del silenzio e dell’ossequio, / per i potenti d’ogni risma” ( La terra dell’ossequio, p.48), cambiano i toni e le modalità espressive: si passa da tracce di lirismo puro, intagliate in rivisitazioni andate riannodate al presente per pensate istantanee di sé nell’evento, fin qui preponderanti, ad un tono più colloquiale, dialogico, euristicamente incline alla speranza, da taglio giornalistico, nella resa di eventi sconvolgenti e tragici, incarnati da innumerevoli morti ammazzate, nell’attesa, presto materializzatasi e carica, essa stessa, di rinnovata attesa, di una sorta di laico messia di giustizia, figura da rivisitare, hic et nunc, senza sospensione di giudizio, all’ombra dei battiti di un cuore adesso in sincope costante per dismesso status civico, almeno, e qui la tensione volitiva torna a farsi speranza e la speranza, ancora una volta, attesa di un telos, che sia fine di aberrante soverchieria millenaria, “Finchè la serva partorirà la sua signora / e agli ultimi vedrete edificare opere grandi” (Il nostro giorno, p.21).
Evidentemente “Il posto delle cose” si presenta come un corpo compatto in cui l’ipotetica discrasia poetico-concettuale fra le parti si risolve nel dia-logo che il poeta instaura fra il lato “privato” e quello “pubblico” di sé, in un continuo ri-posizionarsi in prospettive altre ed alterne, ove il cum-finis tra i raccordi anulari del proprio io e le trazzere della realtà manifesta è mobile e, come tale, ir-riducibile a staticità di pensiero e tensione poetica, accompagnati, questi ultimi, alla ricerca del senso del sé e di sé nel mondo, muovendo tanto dagli angoli di serena quiescenza del villaggio, periferia distratta dal centro, quanto dalla distonia di autistiche metropoli agghindate in luccichii putrescenti.
La parola poetica, nella poesia di Saverio Vasta, sa dir-si nel suo essere dis-velante ri-nominare delle cose, arginando il più possibile, ardua impresa destinata sempre a vedere sconfitto ogni poeta --- ma bisogna pur continuare a dare voce al divino in-canto --- , l’insuperabile discrasia che impedisce ad alcunché di dir-si fino in fondo “nell’essere detto”, di carpire l’originareità essenziale che il “detto” ammanta in flatus vocis: ogni “detto” tra-disce il “dire”, come ogni tra-duzione è un tra-dire, umano rimpianto, pena infinita di in-nominabile divinità laceratasi nel tempo.
I poeti, Saverio Vasta lo è a pieno titolo, stanno lì a ri-annodare, μεταξύ sensibile, il dia-logo infinito tra i poli dell’inconciliabile: sta tutta qui, in iperbole, la loro scommessa d’esserci.