“E
venne la stagione del silenzio
l’inverno
volò via come un baleno
inchiodando
in levare l’avambraccio
svuotando
d’inchiostro la penna” (“La
stagione del silenzio”,
in Lo spergiuro del gallo).
Con
questi versi, che lasciavano presagire silenzio alle mani ed agli
occhi, intuire lo smacco del dir-si poetico di fronte ad una realtà
mostratasi, agli occhi del nostro autore, inadatta ad essere
rap-presenata per interposta mediazione poetica, Saverio Vasta
concludeva la sua prima silloge dal titolo Lo
spergiuro del gallo.
L’avambraccio
inchiodato in levare, nel suo ardire da manifesto poetico, non si è
per nulla anchilosato, svuotato di vigoria intellettuale, ridestatosi
come è ad accompagnare scintille di intuizione e comprensione,
risollevandosi dal luogo placido della noncurante presa di distanza
da buon ritiro, non per additare, screditare, o peggio ancora, per
segnare semplice quanto superflua segnalazione di presenza, ma ad
indicare, districandosi fra le ragnatele gnoseologiche ed i refusi
sensibili di un sé in
fieri nel magma
d’annichilente movimento, possibili incognite di senso, a cogliere
gocce di nitore, seppure opache, nel deserto valoriale e d’esistenza
di questi nostri sgraziati tempi.
La
penna, vivida, rorida di splendore, finanche traboccante in ghirigori
lessicali a blandire formali virtuosismi verbali, è tornata a
ri-tra-durre in segni, latori di un possibile senso, con costanza
ricercato, il sentire-di-sé-nel-mondo, salvaguardando, contraltare
segnato da retaggio di tempi in disuso e da buon senso d’annata, le
stigmate del sacro luogo del silenzio, luogo dell’anima da
preservare, a denti stretti e pugni chiusi, entro i non luoghi,
digrignanti d’assordante disastro, della contemporaneità.
Ecco,
allora, a distanza di tre anni, la coessenzialità di vigoria
intellettuale e naturalezza del segnare presenza di identità farsi
versi in una novella silloge dal titolo Il
posto delle cose.
L’incipit
d’esordio del testo
segna all’istante la presa d’atto in coscienza dello status
quo, senza acritica
adesione né superbo distacco, compiacimento intellettuale o acredine
del sentire: pura e semplice assunzione d’“oggettività”,
posizionamento in prospettiva di sé nel flusso del divenire,
cristallizzatosi nell’in-forme manifestazione del tempo in
delirante esposizione di sé: “Non
c’è confine né trincea / tra il villaggio e la metropoli / tra i
raccordi anulari e le trazzere” (Altrove
è l’oro, p.13).
Venuto meno il cum-finis,
origine di marcata de-finizione, segnalazione di presenza propria a
segnare principio di mobile identità, svanisce il principium
che nomina l’idem
e de-finisce l’alterità dell’alius,
prevalendo l’in-definito, la commistione ibrida a negare la
visibilità del se stesso pubblico, a tutto vantaggio di un melting
pot
esistenziale-culturale da orizzonte liquido, traccia di
postmodernismo abbagliante agli occhi dei più.
Vasta
sembra muoversi allora tra l’impossibilità di spezzare il nodo di
Gordio, che lega indissolubilmente Tradizione
e Modernità
e l’impossibile salvaguardia di tale ferreo legame nell’orizzonte
di una Postmodernità,
colta, o piuttosto sentita, per presa d’atto, obbligato ad aderire,
come appare in controluce, per costrizione d’analisi, dunque per
la ragione, giammai
assunta, laddove la stessa veramente si fosse in-verata e si fosse
noi in essa definitivamente invischiati, per condivisione d’orizzonte
tout court.
Si reclama, a testimonianza di implicita scissione fra gnoseologica
attività di constatazione e volitiva tensione resistente alla
succube adesione, un “altrove” totalmente altro tanto dalla
inconsistente liquidità dell’essente contemporaneo quanto dalla
rigidità di quelle signature con-finanti, che hanno de-finito la
Modernità, di un “altrove” scevro da qualsivoglia esistenza da
campo, governata dalle ferree leggi di un razionalismo strutturante
se stesso per computabilità, calcolabilità, sfrenato riduzionismo
da svanimento dell’esserci, fino “al
culmine dell’entropia”
(Giro di giostra,
p.17).
Fra
gli estremi di questa impossibile soluzione Saverio Vasta torna a
pro-durre versi, a poetare, da artigiano della parola, riconsegnando
con chiarezza e pudore le parole alla originaria поίησις,
all’essenzialità di quel ποιέιν
tracciante dis-velante presenza di senso: il suo poetare, nei momenti
di più alta liricità, si imprime come un “nominare”, che
re-clama alla presenza quanto prima del “detto” poetico altro non
era che un ente in confusione.
Nell’orizzonte
di una computabilità calcolante, che sembra “tutto
ridurre in sequenza di cifre”
(Il male dei numeri,
p.22) ecco allora farsi strada il ri-nominare, nello spazio radicale
della memoria, e farsi dunque rinnovamento, seppure in-utile, di uno
status
ormai definitivamente consegnato alla nostalgia, doloroso viaggio di
ritorno, i gesti di una tradizione tradita, ri-velata solo nel
salvaguardante “essere detto” della trasfigurante parola
poetica: “Bacchia
l’oliva” (L’oliva,
p.24), alla gallina “le
esperte mani della nonna / [le]
aprivano il petto”
(La pannocchia dalla
cresta d’oro,
p.27), “odori di
vendemmia / e gorghi di mosto nel palmento” (Comparse,
p.31). Si configura, così, “il posto delle cose”, in coincidenza
atemporale distratta dai contenuti, con “il posto delle fragole”
di matrice bergmaniana, come il luogo della Memoria, ove il
rinnovantesi ri-nominare delle cose prende avvio dal profumo di
novella madeleine del
profondo sud di penisola dal sapore d’olio bacchiato, di mosto
annunciante vino, di carni da campagna viva, di pannocchie dorate al
sole di pentola antica.
Pur
rimanendo fedele alla terra, nella duplice valenza di costante
richiamo alle tradizioni agro-bucoliche, ovviamente rivisitate e
trasfigurate dalla liricità d’occhi in contemplazione, proprie
della sua infanzia e della sua terra d’origine e di una adesione
critica all’orizzonte della mondanità, mondata dagli eccessi
verbali di chi fa dell’ultraumanesimo scientista professione di
inattaccabile fede, Saverio Vasta, coniugando un sano razionalismo di
matrice socratica con quel dubbio scettico, secolare fiume carsico,
che attraversa l’intera tradizione del pensiero occidentale, “un
po’ diogene un po’ socrate
/ la lanterna fioca e
l’anima sperduta” (E
la musica tace,
p.42), si pone in ascolto dei tempi da fine Impero, cogliendo le
tracce che nichilisticamente li connotano, laddove il riduzionismo,
la compressione spazio-temporale si accompagna ad una vena
esistenzialista, che sembra annichilire non solo lo spazio libero del
pensiero, ma anche il più intimo degli spazi dell’esistenza,
quello che nel suo tra-dursi lega indissolubilmente il sancta
sanctorum della
propria identità alla pubblica dimensione di sé, che, laddove
diviene cum-dividere
si fa “pubblicità” e, nelle sue più alte espressioni,
“politica”, vale a dire il luogo-non luogo delle volizioni, delle
rap-presentazioni oniriche, delle utopie: “È
tempo di sogni rateali” (Il
nostro giorno, p.21).
La
religiosa sospensione del giudizio, anticipata dall’incontro a tu
per tu, sebbene in controluce, con la figura di un Cristo fino in
fondo cristiano, uomo totale, che fa del suo proprio e precipuo
umanesimo il miracolo vero d’umanità, “Chiedigli
se ha spezzato il pane o la croce / se t’ha destato dal sonno o
dalla lenza / se t’ha adescato o teso una trappola per sviarti. /
Se il miracolo fosse che parlava ai pesci / o ch’io parli con te di
lui” (Il
miracolo, p.43),
viene, dal nostro autore, innervata da una rinnovata gnoseologica
sospensione di giudizio con-naturata alla finitezza dell’uomo, la
cui partitura d’azione si lega ai limiti delle proprie possibilità
esperenziali, finite, sullo sfondo di un infinito, che ci inchioda,
divina vendetta, alle umane possibilità mancate: “ora
che Icaro è ricamo di piume / sul nero dell’onda”
(Il volo,
p.16). Saverio Vasta sembra suggerirci che i limiti della conoscenza
non possono essere, orizzonti costantemente dilatati, spinti a forza
sempre più in là, forzando continuamente la mano a ciò che è
“naturale”, in nome di uno scientismo, che si pretende
autoreferenziale “volontà di potenza” che vuole solo se stessa,
richiamandosi ad un morigerato uso della ragione in sospensione,
freno alla locomotiva del disprezzo lanciata ad alta velocità contro
il muro del tempo: “D’ali
si può fare a meno / d’ali si può morire” (Il
volo, p.16).
In
questa logica dia-logante tra posizioni avverse, che si ri-annodano
districandosi per ri-annodarsi ad altro livello, si innesta il
versificare del nostro poeta. Se è vero, come sostiene Emilio Isgrò
nella Prefazione alla
silloge poetica in esame, che le tracce della poesia del profondo sud
italico, nello specifico delle assolate-desolate lande della
provincia messinese, sono presenti in Saverio Vasta, “Potrà
mai infatti un poeta dell’immensa provincia messinese fingere che
Piccolo, Cattafi, Reale non siano mai esistiti?” (Prefazione
a Il posto delle cose, p.7), altrettanto vivida e manifesta, se
nobili padri vanno richiamati a testimoniare per tracciare la cornice
di un quadro di famiglia da rendere pubblico all’entrata del
proprio poetico edificio in costruzione, sembra essere la lezione
crepuscolare di quel Guido Gozzano demiurgo di quotidiana materia
d’esistenza tradotta in sublime liricità, non poesia dimessa o
delle piccole cose, volendone così spregiativamente sottolinearne
adesione valoriale alla piccineria dell’essente, ma in-canto del
ri-nominare poeticamente gli oggetti della quotidianità
crepuscolarmente illuminati, altrimenti destinati all’oblio
dell’enticità reietta: “Un
uovo zampetta nel tegame / sul fuoco blu del vecchio cucinino. /
Quattro dita picchiettano l’attesa / a un palmo da una scorza di
limone. / Didascalia di un crepuscolo” (Crepuscolo,
p.46) ………. e mentre Vasta si accinge a consumare per versi il
frutto delle proprie intuizioni, nella stanza accanto la signorina
Felicita ascolta, assorta, il profumo picchiettante di questo frugale
pasto d’attesa, mentre tosta il caffè, cuce i lini e canta e più
in là Totò Merùmeni, fra giorni appena nati e poi subito morti,
s’accompagna, per costrizione, “con
una madre inferma, / una prozia canuta ed uno zio demente” (G.
Gozzano, Totò
Merùmeni) e, per
piacere, ad “una
ghiandaia roca, / un micio, una bertuccia che ha nome Makakita”
(Ibidem).
Staccate
dal corpus principale
dell’intera silloge, poeticamente omogenea fin qui e
strutturalmente compatta nelle sue direttive poetiche, sembra essere
l’ultima parte della raccolta, composta da un numero esiguo di
liriche, che potremmo definire “civili”. Se la tensione poetica
resta ugualmente vigile e qua e là emergono barlumi di liricità
collocabili al livello più alto di quelli predominanti nel rimanente
corpus del
testo, “Siamo venuti
su a latte caldo e paura / all’ombra del silenzio e dell’ossequio,
/ per i potenti d’ogni risma” (
La terra
dell’ossequio,
p.48), cambiano i toni e le modalità espressive: si passa da tracce
di lirismo puro, intagliate in rivisitazioni andate riannodate al
presente per pensate istantanee di sé nell’evento, fin qui
preponderanti, ad un tono più colloquiale, dialogico, euristicamente
incline alla speranza, da taglio giornalistico, nella resa di eventi
sconvolgenti e tragici, incarnati da innumerevoli morti ammazzate,
nell’attesa, presto materializzatasi e carica, essa stessa, di
rinnovata attesa, di una sorta di laico messia di giustizia, figura
da rivisitare, hic et
nunc, senza
sospensione di giudizio, all’ombra dei battiti di un cuore adesso
in sincope costante per dismesso status
civico, almeno, e qui
la tensione volitiva torna a farsi speranza e la speranza, ancora una
volta, attesa di un telos,
che sia fine di aberrante soverchieria millenaria, “Finchè
la serva partorirà la sua signora / e agli ultimi vedrete edificare
opere grandi” (Il
nostro giorno, p.21).
Evidentemente
“Il posto delle
cose” si presenta
come un corpo compatto in cui l’ipotetica discrasia
poetico-concettuale fra le parti si risolve nel dia-logo che il poeta
instaura fra il lato “privato” e quello “pubblico” di sé, in
un continuo ri-posizionarsi in prospettive altre ed alterne, ove il
cum-finis
tra i raccordi anulari del proprio io e le trazzere della realtà
manifesta è mobile e, come tale, ir-riducibile a staticità di
pensiero e tensione poetica, accompagnati, questi ultimi, alla
ricerca del senso del sé e di sé nel mondo, muovendo tanto dagli
angoli di serena quiescenza del villaggio, periferia distratta dal
centro, quanto dalla distonia di autistiche metropoli agghindate in
luccichii putrescenti.
La
parola poetica, nella poesia di Saverio Vasta, sa dir-si nel suo
essere dis-velante ri-nominare delle cose, arginando il più
possibile, ardua impresa destinata sempre a vedere sconfitto ogni
poeta --- ma bisogna pur continuare a dare voce al divino in-canto
--- , l’insuperabile discrasia che impedisce ad alcunché di dir-si
fino in fondo “nell’essere detto”, di carpire l’originareità
essenziale che il “detto” ammanta in flatus
vocis: ogni “detto”
tra-disce il “dire”, come ogni tra-duzione è un tra-dire, umano
rimpianto, pena infinita di in-nominabile divinità laceratasi nel
tempo.
I
poeti, Saverio Vasta lo è a pieno titolo, stanno lì a ri-annodare,
μεταξύ
sensibile, il
dia-logo infinito tra i poli dell’inconciliabile: sta tutta qui, in
iperbole, la loro scommessa d’esserci.