martedì 5 giugno 2012

"Il posto delle cose " di Saverio Vasta, Pungitopo, Marina di Patti 2011. Recensione di Domenico Mostaccio.


E venne la stagione del silenzio
l’inverno volò via come un baleno
inchiodando in levare l’avambraccio
svuotando d’inchiostro la penna” (“La stagione del silenzio”, in Lo spergiuro del gallo).

Con questi versi, che lasciavano presagire silenzio alle mani ed agli occhi, intuire lo smacco del dir-si poetico di fronte ad una realtà mostratasi, agli occhi del nostro autore, inadatta ad essere rap-presenata per interposta mediazione poetica, Saverio Vasta concludeva la sua prima silloge dal titolo Lo spergiuro del gallo.
L’avambraccio inchiodato in levare, nel suo ardire da manifesto poetico, non si è per nulla anchilosato, svuotato di vigoria intellettuale, ridestatosi come è ad accompagnare scintille di intuizione e comprensione, risollevandosi dal luogo placido della noncurante presa di distanza da buon ritiro, non per additare, screditare, o peggio ancora, per segnare semplice quanto superflua segnalazione di presenza, ma ad indicare, districandosi fra le ragnatele gnoseologiche ed i refusi sensibili di un sé in fieri nel magma d’annichilente movimento, possibili incognite di senso, a cogliere gocce di nitore, seppure opache, nel deserto valoriale e d’esistenza di questi nostri sgraziati tempi.
La penna, vivida, rorida di splendore, finanche traboccante in ghirigori lessicali a blandire formali virtuosismi verbali, è tornata a ri-tra-durre in segni, latori di un possibile senso, con costanza ricercato, il sentire-di-sé-nel-mondo, salvaguardando, contraltare segnato da retaggio di tempi in disuso e da buon senso d’annata, le stigmate del sacro luogo del silenzio, luogo dell’anima da preservare, a denti stretti e pugni chiusi, entro i non luoghi, digrignanti d’assordante disastro, della contemporaneità.
Ecco, allora, a distanza di tre anni, la coessenzialità di vigoria intellettuale e naturalezza del segnare presenza di identità farsi versi in una novella silloge dal titolo Il posto delle cose.
L’incipit d’esordio del testo segna all’istante la presa d’atto in coscienza dello status quo, senza acritica adesione né superbo distacco, compiacimento intellettuale o acredine del sentire: pura e semplice assunzione d’“oggettività”, posizionamento in prospettiva di sé nel flusso del divenire, cristallizzatosi nell’in-forme manifestazione del tempo in delirante esposizione di sé: “Non c’è confine né trincea / tra il villaggio e la metropoli / tra i raccordi anulari e le trazzere” (Altrove è l’oro, p.13). Venuto meno il cum-finis, origine di marcata de-finizione, segnalazione di presenza propria a segnare principio di mobile identità, svanisce il principium che nomina l’idem e de-finisce l’alterità dell’alius, prevalendo l’in-definito, la commistione ibrida a negare la visibilità del se stesso pubblico, a tutto vantaggio di un melting pot esistenziale-culturale da orizzonte liquido, traccia di postmodernismo abbagliante agli occhi dei più.
Vasta sembra muoversi allora tra l’impossibilità di spezzare il nodo di Gordio, che lega indissolubilmente Tradizione e Modernità e l’impossibile salvaguardia di tale ferreo legame nell’orizzonte di una Postmodernità, colta, o piuttosto sentita, per presa d’atto, obbligato ad aderire, come appare in controluce, per costrizione d’analisi, dunque per la ragione, giammai assunta, laddove la stessa veramente si fosse in-verata e si fosse noi in essa definitivamente invischiati, per condivisione d’orizzonte tout court. Si reclama, a testimonianza di implicita scissione fra gnoseologica attività di constatazione e volitiva tensione resistente alla succube adesione, un “altrove” totalmente altro tanto dalla inconsistente liquidità dell’essente contemporaneo quanto dalla rigidità di quelle signature con-finanti, che hanno de-finito la Modernità, di un “altrove” scevro da qualsivoglia esistenza da campo, governata dalle ferree leggi di un razionalismo strutturante se stesso per computabilità, calcolabilità, sfrenato riduzionismo da svanimento dell’esserci, fino “al culmine dell’entropia” (Giro di giostra, p.17).
Fra gli estremi di questa impossibile soluzione Saverio Vasta torna a pro-durre versi, a poetare, da artigiano della parola, riconsegnando con chiarezza e pudore le parole alla originaria поίησις, all’essenzialità di quel ποιέιν tracciante dis-velante presenza di senso: il suo poetare, nei momenti di più alta liricità, si imprime come un “nominare”, che re-clama alla presenza quanto prima del “detto” poetico altro non era che un ente in confusione.
Nell’orizzonte di una computabilità calcolante, che sembra “tutto ridurre in sequenza di cifre” (Il male dei numeri, p.22) ecco allora farsi strada il ri-nominare, nello spazio radicale della memoria, e farsi dunque rinnovamento, seppure in-utile, di uno status ormai definitivamente consegnato alla nostalgia, doloroso viaggio di ritorno, i gesti di una tradizione tradita, ri-velata solo nel salvaguardante “essere detto” della trasfigurante parola poetica: “Bacchia l’oliva” (L’oliva, p.24), alla gallina “le esperte mani della nonna / [le] aprivano il petto” (La pannocchia dalla cresta d’oro, p.27), “odori di vendemmia / e gorghi di mosto nel palmento” (Comparse, p.31). Si configura, così, “il posto delle cose”, in coincidenza atemporale distratta dai contenuti, con “il posto delle fragole” di matrice bergmaniana, come il luogo della Memoria, ove il rinnovantesi ri-nominare delle cose prende avvio dal profumo di novella madeleine del profondo sud di penisola dal sapore d’olio bacchiato, di mosto annunciante vino, di carni da campagna viva, di pannocchie dorate al sole di pentola antica.
Pur rimanendo fedele alla terra, nella duplice valenza di costante richiamo alle tradizioni agro-bucoliche, ovviamente rivisitate e trasfigurate dalla liricità d’occhi in contemplazione, proprie della sua infanzia e della sua terra d’origine e di una adesione critica all’orizzonte della mondanità, mondata dagli eccessi verbali di chi fa dell’ultraumanesimo scientista professione di inattaccabile fede, Saverio Vasta, coniugando un sano razionalismo di matrice socratica con quel dubbio scettico, secolare fiume carsico, che attraversa l’intera tradizione del pensiero occidentale, “un po’ diogene un po’ socrate / la lanterna fioca e l’anima sperduta” (E la musica tace, p.42), si pone in ascolto dei tempi da fine Impero, cogliendo le tracce che nichilisticamente li connotano, laddove il riduzionismo, la compressione spazio-temporale si accompagna ad una vena esistenzialista, che sembra annichilire non solo lo spazio libero del pensiero, ma anche il più intimo degli spazi dell’esistenza, quello che nel suo tra-dursi lega indissolubilmente il sancta sanctorum della propria identità alla pubblica dimensione di sé, che, laddove diviene cum-dividere si fa “pubblicità” e, nelle sue più alte espressioni, “politica”, vale a dire il luogo-non luogo delle volizioni, delle rap-presentazioni oniriche, delle utopie: “È tempo di sogni rateali” (Il nostro giorno, p.21).
La religiosa sospensione del giudizio, anticipata dall’incontro a tu per tu, sebbene in controluce, con la figura di un Cristo fino in fondo cristiano, uomo totale, che fa del suo proprio e precipuo umanesimo il miracolo vero d’umanità, “Chiedigli se ha spezzato il pane o la croce / se t’ha destato dal sonno o dalla lenza / se t’ha adescato o teso una trappola per sviarti. / Se il miracolo fosse che parlava ai pesci / o ch’io parli con te di lui” (Il miracolo, p.43), viene, dal nostro autore, innervata da una rinnovata gnoseologica sospensione di giudizio con-naturata alla finitezza dell’uomo, la cui partitura d’azione si lega ai limiti delle proprie possibilità esperenziali, finite, sullo sfondo di un infinito, che ci inchioda, divina vendetta, alle umane possibilità mancate: “ora che Icaro è ricamo di piume / sul nero dell’onda” (Il volo, p.16). Saverio Vasta sembra suggerirci che i limiti della conoscenza non possono essere, orizzonti costantemente dilatati, spinti a forza sempre più in là, forzando continuamente la mano a ciò che è “naturale”, in nome di uno scientismo, che si pretende autoreferenziale “volontà di potenza” che vuole solo se stessa, richiamandosi ad un morigerato uso della ragione in sospensione, freno alla locomotiva del disprezzo lanciata ad alta velocità contro il muro del tempo: “D’ali si può fare a meno / d’ali si può morire” (Il volo, p.16).
In questa logica dia-logante tra posizioni avverse, che si ri-annodano districandosi per ri-annodarsi ad altro livello, si innesta il versificare del nostro poeta. Se è vero, come sostiene Emilio Isgrò nella Prefazione alla silloge poetica in esame, che le tracce della poesia del profondo sud italico, nello specifico delle assolate-desolate lande della provincia messinese, sono presenti in Saverio Vasta, “Potrà mai infatti un poeta dell’immensa provincia messinese fingere che Piccolo, Cattafi, Reale non siano mai esistiti?” (Prefazione a Il posto delle cose, p.7), altrettanto vivida e manifesta, se nobili padri vanno richiamati a testimoniare per tracciare la cornice di un quadro di famiglia da rendere pubblico all’entrata del proprio poetico edificio in costruzione, sembra essere la lezione crepuscolare di quel Guido Gozzano demiurgo di quotidiana materia d’esistenza tradotta in sublime liricità, non poesia dimessa o delle piccole cose, volendone così spregiativamente sottolinearne adesione valoriale alla piccineria dell’essente, ma in-canto del ri-nominare poeticamente gli oggetti della quotidianità crepuscolarmente illuminati, altrimenti destinati all’oblio dell’enticità reietta: “Un uovo zampetta nel tegame / sul fuoco blu del vecchio cucinino. / Quattro dita picchiettano l’attesa / a un palmo da una scorza di limone. / Didascalia di un crepuscolo” (Crepuscolo, p.46) ………. e mentre Vasta si accinge a consumare per versi il frutto delle proprie intuizioni, nella stanza accanto la signorina Felicita ascolta, assorta, il profumo picchiettante di questo frugale pasto d’attesa, mentre tosta il caffè, cuce i lini e canta e più in là Totò Merùmeni, fra giorni appena nati e poi subito morti, s’accompagna, per costrizione, “con una madre inferma, / una prozia canuta ed uno zio demente” (G. Gozzano, Totò Merùmeni) e, per piacere, ad “una ghiandaia roca, / un micio, una bertuccia che ha nome Makakita” (Ibidem).
Staccate dal corpus principale dell’intera silloge, poeticamente omogenea fin qui e strutturalmente compatta nelle sue direttive poetiche, sembra essere l’ultima parte della raccolta, composta da un numero esiguo di liriche, che potremmo definire “civili”. Se la tensione poetica resta ugualmente vigile e qua e là emergono barlumi di liricità collocabili al livello più alto di quelli predominanti nel rimanente corpus del testo, “Siamo venuti su a latte caldo e paura / all’ombra del silenzio e dell’ossequio, / per i potenti d’ogni risma” ( La terra dell’ossequio, p.48), cambiano i toni e le modalità espressive: si passa da tracce di lirismo puro, intagliate in rivisitazioni andate riannodate al presente per pensate istantanee di sé nell’evento, fin qui preponderanti, ad un tono più colloquiale, dialogico, euristicamente incline alla speranza, da taglio giornalistico, nella resa di eventi sconvolgenti e tragici, incarnati da innumerevoli morti ammazzate, nell’attesa, presto materializzatasi e carica, essa stessa, di rinnovata attesa, di una sorta di laico messia di giustizia, figura da rivisitare, hic et nunc, senza sospensione di giudizio, all’ombra dei battiti di un cuore adesso in sincope costante per dismesso status civico, almeno, e qui la tensione volitiva torna a farsi speranza e la speranza, ancora una volta, attesa di un telos, che sia fine di aberrante soverchieria millenaria, “Finchè la serva partorirà la sua signora / e agli ultimi vedrete edificare opere grandi” (Il nostro giorno, p.21).
Evidentemente “Il posto delle cose” si presenta come un corpo compatto in cui l’ipotetica discrasia poetico-concettuale fra le parti si risolve nel dia-logo che il poeta instaura fra il lato “privato” e quello “pubblico” di sé, in un continuo ri-posizionarsi in prospettive altre ed alterne, ove il cum-finis tra i raccordi anulari del proprio io e le trazzere della realtà manifesta è mobile e, come tale, ir-riducibile a staticità di pensiero e tensione poetica, accompagnati, questi ultimi, alla ricerca del senso del sé e di sé nel mondo, muovendo tanto dagli angoli di serena quiescenza del villaggio, periferia distratta dal centro, quanto dalla distonia di autistiche metropoli agghindate in luccichii putrescenti.
La parola poetica, nella poesia di Saverio Vasta, sa dir-si nel suo essere dis-velante ri-nominare delle cose, arginando il più possibile, ardua impresa destinata sempre a vedere sconfitto ogni poeta --- ma bisogna pur continuare a dare voce al divino in-canto --- , l’insuperabile discrasia che impedisce ad alcunché di dir-si fino in fondo “nell’essere detto”, di carpire l’originareità essenziale che il “detto” ammanta in flatus vocis: ogni “detto” tra-disce il “dire”, come ogni tra-duzione è un tra-dire, umano rimpianto, pena infinita di in-nominabile divinità laceratasi nel tempo.
I poeti, Saverio Vasta lo è a pieno titolo, stanno lì a ri-annodare, μεταξύ sensibile, il dia-logo infinito tra i poli dell’inconciliabile: sta tutta qui, in iperbole, la loro scommessa d’esserci.

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